Gli angeli piccoli piccoli che mettono le ali ai papà

Venduti come schiavi del sesso, rapiti per il mercato degli organi, costretti ai lavori forzati. A Kabul essere bimbi è una condanna. E il nemico peggiore potrebbe nascondersi in famiglia

da Kabul

I bambini di Kabul, purtroppo, non fanno Ohoo! Rapiti, venduti, deportati in Pakistan e nei ricchi paesi arabi del Golfo, come schiavi del sesso o schiavi e basta, o come fantini per le corse di cammelli. I figli poveri dell’Afghanistan sono condannati in migliaia ad un destino invivibile, i più sfortunati spariscono per sempre, i loro organi, è il terribile sospetto, espiantati per venderli al migliore offerente.
«Mio padre è stato ucciso da una pallottola vagante. Non sapevo cosa fare per sostenere la famiglia e sono andato a rovistare nei rifiuti per recuperare le lattine di Pepsi Cola, che poi vengono riciclate. Con tre lattine guadagnavo un afghani (un centesimo di euro, nda)» racconta Hamid, 12 anni, sguardo da duro, ma volto da bambino tempestato di cicatrici della Leshmaniosi, una brutta malattia provocata dalla puntura di una mosca. Da quattro anni vive così, è uno degli oltre 50mila bambini di strada di Kabul, fra i più esposti ai rapimenti.
L’altra faccia della medaglia sono le coraggiose organizzazioni umanitarie che fanno di tutto per recuperare i bambini di strada ed i minori che hanno imbracciato le armi fin da piccoli. Secondo l’Unicef sono ancora 7000 i bambini soldati in Afghanistan. Piccoli cresciuti con il kalaschnikov a tracolla, usati come inservienti, autisti o guardie del corpo dai signorotti della guerra. Spesso in Afghanistan incontri dei bambini, scalzi e sporchi, che sopravvivono riempiendo di terra le buche sulle piste sabbiose che attraversano il paese. Quando dal finestrino del fuoristrada lanci loro una banconota afghana, che per te non vale niente, fanno i salti mortali, ti sorridono e rincorrono per ringraziarti. Anche ai veterani delle guerre si stringe il cuore davanti a tanta miseria, ma per assurdo questi bambini sono fortunati.
Migliaia di loro coetanei sono stati rapiti o venduti dalle famiglie ridotte alla fame a trafficanti senza scrupoli. «All’età di sei anni sono stata costretta a lavorare nella tessitura dei tappeti. Dopo la morte di mio padre ero l’unica che portava a casa i soldi – racconta una ragazzina che oggi ne ha 17 - Il datore di lavoro abusava di me e un giorno mi ha portata in Pakistan dove ho subito violenze sessuali da diverse persone». Almeno un migliaio di bambini afghani sono stati deportati nei ricchi paesi del Golfo, come l’Arabia Saudita e vivono ancora come schiavi, secondo le informazioni dell’Unicef. «Bambini di 2-3 anni, leggeri come sono, vengono legati fra le gobbe dei cammelli. Li usano come fantini, perché il loro pianto disperato terrorizza le bestie che corrono più veloci durante le gare» spiega Najebullah Barakzai, uno dei funzionari della Commissione afghana sui diritti umani. Spesso i trafficanti utilizzano la scusa dell’Haji, il pellegrinaggio annuale alla Mecca, per imbarcarsi con i bambini venduti o rapiti su un aereo in Pakistan e sbarcare comodamente in Arabia Saudita. In molti casi le famiglie più povere che vivono ancora nei campi profughi, dopo quasi trent’anni anni di guerre, affidano i loro figli più giovani ad organizzazioni criminali, che si presentano come salvatori, convinti che avranno una vita migliore. Invece vengono utilizzati come lavoratori forzati o schiavi del sesso, soprattutto nella provincia pachistana del Punjab. Il traffico è senza confini: due bambini afghani deportati sono stati scoperti addirittura nello Zambia.
«Fra la fine del 2004 e l’inizio del 2005 siamo riusciti a riportare a casa 370 bambini dall’Arabia Saudita. Il lavoro per ritrovare le famiglie non è stato semplice, ma alla fine abbiamo reintegrato il 95% dei minori» fa notare Barakzai, sguardo triste ed aspetto da occidentale. Ogni bimbo rapito o venduto dalla famiglie vale 60-70mila rupie sul mercato pachistano, l’equivalente di un migliaio di dollari, ma in alcuni casi le cifre si impennano. Si tratta dei piccoli fatti sparire per il mercato degli organi, che nel vicino Pakistan sarebbe clandestino e fiorente. Durante il regno dei talebani uno dei bambini spariti nel nulla era tornato dopo qualche tempo a casa. La madre aveva notato una strana cicatrice sul fianco e lo ha portato in ospedale: gli avevano espiantato un rene. Due anni mezzo fa, nella provincia di Lowgar, vicino a Kabul, un medico afghano è stato arrestato mentre stava cercando di trasportare il rene di un bambino rapito morto sotto i ferri in Pakistan.
Uno dei casi più eclatanti era venuto alla luce nel 2004 nei dintorni di Kandahar, l’ex capitale «spirituale» dei talebani. Ismail, un bambino di 10 anni, era stato liberato assieme al fratello più piccolo da un blitz della forze di sicurezza afghane. Abdullah Laghmani, responsabile del blitz, non aveva dubbi: «I rapitori avevano ucciso altri cinque bambini, tagliato loro le teste e prelevato i reni».
Le vittime più a rischio rapimento sono i bambini di strada come Wali Khan, 11 anni, originario della provincia di Laghman, lentiggini alla pel di carota e capelli a zero a causa dei pidocchi: «Dalla mattina alla sera, con qualsiasi tempo, vendo gomme da masticare in mezzo alle macchine nel centro di Kabul. Mi fermo solo il venerdì. Vivo così da tre anni e se va bene guadagno l’equivalente di un dollaro al giorno, ma servono per comprare il pane alla mia famiglia».
Nelle vie più trafficate di Kabul, o davanti ai ristoranti, i bambini vu’ cumprà sono oramai parte del paesaggio. Se ti fermi a mangiare ti lucidano la macchina a nuovo, se vai di fretta vendono di tutto, dai fazzolettini per il naso, alle foto di Ahmad Shah Massoud, uno dei più famosi comandanti ucciso da Al Qaida due giorni prima dell’11 settembre. I più poveri offrono folate di spandie, un incenso portafortuna. Diecimila bambini di strada vengono aiutati dall’Ong locale Aschiana, che ha sette centri di accoglienza a Kabul. Per metà giornata i minori in difficoltà studiano o imparano un mestiere e l’altra metà tornano a lavorare in strada talvolta non solo per far sopravvivere la famiglia.

«I casi più gravi riguardano il padre tossicodipendente – denuncia Mohammed Yusef, direttore dell’organizzazione umanitaria - che obbliga i figli a lavorare in strada. E poi si fa consegnare i soldi per comprarsi la droga».

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