Con il consueto trasporto, Vittorio Sgarbi lo definisce «patrono dei no global». E aggiunge: «È il Pasolini della pittura, cantore dellintegrità di un mondo perduto». Etichette che un pubblicitario non esiterebbe a trasformare in slogan, per reclamizzare una delle mostre più importanti della stagione milanese: Antonio Donghi. 1897 - 1963 (a Palazzo Reale fino al 13 maggio).
Gli aspetti dellimportanza sono molteplici. Anzitutto, è la prima vera antologica sullartista ospitata da Milano. In passato qualche opera di Donghi è apparsa in esposizioni collettive e miscellanee, e nel 1940 la galleria Gian Ferrari gli dedicò una rassegna. Ma così completa - novantuno lavori tra olii, pastelli e disegni - in città non si è mai vista.
Poi ci sono i contenuti, che esprimono quella completezza anche per mezzo di inediti e di rarità. Il più importante «fondo Donghi» al mondo, di proprietà della Banca di Roma (che promuove levento), sarà esposto integralmente: si tratta di ventotto opere, ventidue delle quali sono pitture a olio. Ad esso si aggiungono pezzi che al Complesso del Vittoriano di Roma, dove lantologica si è tenuta fino allo scorso 18 marzo, non sono stati esposti. Tra tutti, citazione per Margherita (1936), prestito della Galleria Civica dArte Moderna di Milano, e del Cacciatore (1938), dipinto mai più esposto dal 1940.
Curata da Maria Teresa Benedetti e Valerio Rivosecchi, la mostra approda a Palazzo Reale forte del grande successo di pubblico riscosso nella capitale. Artista poco esposto - lultima rassegna è di quattordici anni fa a Spoleto -, Donghi raccoglie interesse per vari motivi. In primis il suo stile, un «realismo magico» che, alla fine degli anni 20 del secolo scorso, dipinge meticolosamente la realtà rifacendosi alla classicità rinascimentale. E distaccandosi dallepica del tempo. «Sono i primi anni del fascismo - spiega Sgarbi -, ma per Donghi luomo non è un protagonista retorico, bensì umile e degno nella vita di tutti i giorni».
Unumiltà che si ritrova sia nelle modestia delle nature morte sia nella giocosità di soggetti come Il circo equestre (1927), anchesso una delle novità milanesi. E che lo stesso Donghi praticava nella sua quotidianità, con un tenore di vita sobrio. Certo, nel suo guardaroba aveva molti vestiti, ma gli venivano dal padre, commerciante di stoffe, e soprattutto gli servivano per vestire i suoi modelli.
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