Appelfeld riapre la ferita della bellezza

Tra una decina di giorni uno dei maggiori scrittori viventi farà la sua apparizione a Milano, fuori dalle giostre dei festival e delle solite, equivoche kermesse. Si chiama Aharon Appelfeld, è israeliano (classe 1932) e, nonostante diversi suoi libri siano stati pubblicati in Italia, è pressoché sconosciuto qui da noi. Fu Mondadori a presentarlo per primo, nel 1981, con il romanzo Badenheim 1939. Toccò poi a Feltrinelli.

Fu però l’editrice Giuntina a farsi carico di una pubblicazione più sistematica della sua opera, con tre autentici capolavori: Tutto ciò che ho amato, Notte dopo notte e il testo autobiografico Storia di una vita. Ma, come spesso succede, la piccola casa editrice non ebbe la forza di imporre questo grande scrittore. Bisognava alzare la voce. Così un altro grande editore, Guanda, ci riprova, e per alzare meglio la voce affida la nuova traduzione di Badenheim 1939 (pagg. 142, euro 13,50) nientemeno che a Elena Loewenthal: segno che l’editore intende scommettere forte. Il libro è appena uscito e lo consiglio caldamente a tutti.

Che la data «1939» prometta storie tristi, non c’è dubbio. E così è. La ragione, però, per cui mi permetto, in attesa di spazi maggiori, di presentare l’ebreo Appelfeld in una rubrica come questa sta nella vistosa prevalenza, in questo scrittore, del tema della bellezza. Più volte Papa Benedetto XVI ha toccato questo tema, e in un’occasione ha addirittura parlato di «ferita» della bellezza. La bellezza è come un pugnale, e lascia segni permanenti. Ora, raramente ho incontrato nella mia vita scrittori capaci, come lo è Appelfeld, di penetrare tutta la propria materia narrativa, anche la più cruda, di questo senso di bellezza. Non c’è particolare, anche banale, che non ne sia pieno.
Anche la tragedia più spaventosa, infatti, resta noiosa macelleria se non viene illuminata dalla bellezza. Che la renderà anche più tragica, ma aiuterà le nostre domande a liberarsi dalla banalità, il nostro dolore a farsi esperienza.

La bellezza è qualcosa di molto concreto, che una

ragazza seriamente appassionata di moda può forse capire meglio di tanti professori. E la sua ferita è una ferita giusta e utile. Appelfeld ce lo dimostra con la forza dei suoi ritratti, delle sue storie e delle sue immagini.

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