Onofrio Lopez
La tecnologia non cancellerà tutto il nostro passato, ma cambierà i rapporti, le transazioni. I fenomeni di «disintermediazione», ossia la sempre minore presenza di livelli intermedi non solo nella catena del valore, ma anche in quella di formazione dell'opinione pubblica, non hanno colto di sorpresa il settore bancario (e assicurativo) che già da una decina d'anni studia con sempre maggiore attenzione la digital disruption (cioè tutte le applicazioni a forte contenuti innovativo) per non farsi scavalcare.
In fondo, basta pensarci bene. In tutti i sistemi di pagamento più evoluti c'è la cara, vecchia banca, ma in un'altra forma. Prendiamo la novità del momento «Apple Pay», ossia il sistema di pagamento disponibile sugli iPhone, Apple Watch e iMac di ultima generazione. Di che cosa si tratta? Di una sorta di portafoglio virtuale nel quale inseriamo la nostra carta di credito. Lo smartphone, dotato di tecnologia Nfc (near field communication, comunicazione di corto raggio) può essere avvicinato al Pos, proprio come le nostre carte, e in virtù del riconoscimento biometrico della nostra impronta digitale «dirà» al terminale che stiamo pagando con la nostra card, ma in un modo diverso perché le nostre credenziali non vengono condivise, come accade finora nelle transazioni quotidiane. In Italia Apple Pay ha iniziato a funzionare con carte di credito e prepagate di Unicredit e Carrefour Bank. Seguiranno American Express, CartaBcc, Fineco, Widiba e Banca Mediolanum. Tra i partner della grande distribuzione si segnalano, tra gli altri, Auchan, Monclick, La Rinascente e Eataly.
L'innovazione, tuttavia, implica un nuovo modo di fare banca e, soprattutto, di gestire i ricavi. Chi aderisce ad Apple Pay, infatti, devolve una parte delle commissioni (lo 0,15% su ogni transazione) al gruppo di Cupertino. Ecco perché è interesse degli istituti di credito contribuire al marketing di queste soluzioni di pagamento per recuperare con i maggiori volumi ciò che a parità di transazioni potrebbe comportare un calo di fatturato. Da questi cambiamenti nelle scelte di consumo e nelle modalità di pagamento si origina l'interesse del comparto finanziario per le nuove tecnologie. C'è chi si concentra sulla blockchain, cioè sugli algoritmi delle transazioni alla base degli scambi di monete virtuali come i bitcoin, attraverso il consorzio R3Cev (di cui fanno parte Intesa Sanpaolo e Unicredit), chi si concentra sui prestiti peer-to-peer (cioè tra utenti di uno stesso servizio) e chi fa crescere le startup in casa sperando di cogliere nuove opportunità nel fintech come Intesa Sanpaolo con il suo Innovation Center di Torino.
Ad esempio, gli operatori tradizionali da anni hanno sviluppato piattaforme per il trasferimento di denaro tra utenti o per i pagamenti. Poste Italiane ha integrato i servizi BancoPosta e PostePay sulla sim PosteMobile che consente anche di effettuare pagamenti contactless sul proprio smartphone Android o Windows.
ll fondo Sator ha lanciato la piattaforma Tinaba (acronimo di This is not a bank) per i pagamenti digitali. Sia ha sviluppato l'app Jiffy che può essere personalizzata dalle singole banche ed è stata usata da 13 gruppi tra i quali Intesa, Unicredit, Ubi, Bnl, Widiba, Carige e Cariparma. Poi c'è Zac di Icbpi (scelta dal Creval), Hype di Banca Sella e Chat&Cash del Banco Popolare (oggi Banco Bpm).
Non va poi dimenticata Satispay, nata come piattaforma peer-to-peer, si è estesa agli esercizi commerciali. I soldi vengono inviati tramite il proprio Iban dall'app e funziona come un messaggio su una chat: Satispay è disponibile su iPhone e Android e poiché si «aggancia» al conto corrente è disponibile per tutte le banche.
È una sorta di risposta italiana a quello che Whatsapp, Messenger di Facebook e Snapchat hanno già sviluppato negli Usa. Nel 2016, segnala il Politecnico di Milano, i pagamenti digitali sono saliti del 9% a 190 miliardi, quasi un quarto della spesa delle famiglie italiane.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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