Dalla radio alle mostre, Clelia Patella alla scoperta dell'arte digitale

Considerata da molti anni una figura di riferimento in Italia tra gli influencer culturali la curatrice Clelia Patella racconta come diffonde la conoscenza dell'arte sul web

Dalla radio alle mostre, Clelia Patella alla scoperta dell'arte digitale

Cosa è l'arte e come cambia la vita delle persone? Quesiti a cui non è semplice rispondere visto che spesso, proprio questa viene vissuta come qualcosa di polveroso e a volte anche noioso. Ma non è così, come racconta la curatrice d'arte Clelia Patella nella nostra intervista, che l'arte la racconta in molti modi, andando alle mostre e spiegandole nel suo blog, intervistando gli artisti più influenti per la sua videorubrica Walk in Art.

La sua ultima mostra The Inner War, parla di un tema tragico e putroppo di grande attualità: la guerra. Figlia di due pittori ha respirato l'arte fin da piccola comprendendone le sfumature più profonde, trasformandole poi in conoscenza per tutti. "Perché l'arte -racconta - più delle parole porta a scoprire e riflette la realtà del periodo che vive". Non a caso Clelia, è considerata da molti anni una figura di riferimento in Italia tra gli influencer culturali.

Da quando ha iniziato ad appassionarsi all’arte?

“L’arte è sempre stata con me, fin dall’infanzia, avendo due genitori pittori ho sempre frequentato musei e gallerie dove i miei mi portavano fin da piccola non a caso ho poi scelto il liceo artistico. Però, non avrei mai pensato che sarebbe diventata il mio lavoro, perché per un lungo periodo l’ho trascurata”.

Però l'arte portata avanti dai suoi genitori in qualche modo l'ha poi contagiata?

“Oltre al frequentare i musei, come dicevo, c’era la pratica e il ‘respiro quotidiano’ del dipingere. Ero molto piccola quando prendevo in prestito i pennelli e i colori dei miei genitori. Mio padre ha fatto l’Accademia di Belle Arti a Brera e a lui in particolare devo la mia passione. Spesso ci radunava nel suo studio e metteva alla prova me, mia sorella e mia madre chiedendoci di riprodurre un’opera per poi decretarne la migliore. Ora sarebbe orgoglioso di me. Mia madre mi ha sempre spinta a continuare a dipingere, ma la mia vita ha preso una strada parallela perché sono qui a raccontare l’arte degli altri. Meglio così, non avrei mai potuto superare il talento di mio padre".

Prima dell’arte a cosa si è dedicata?

“Dopo gli studi ho lavorato in uno studio di architettura perché volevo diventare un "archistar" (un architetto molto famoso che, come i personaggi dello show business, è al centro dell'attenzione pubblica, ndr), sognavo di progettare e costruire musei in giro per il mondo. Per una serie di coincidenze invece, iniziai a lavorare in radio e in tv conducendo vari programmi musicali. È stata un’esperienza che mi ha comunque dato tanto, a cui forse devo anche la mia capacità di considerare un tema “elevato” come l’arte attraverso l’occhio del pubblico, mettendomi nei panni di chi le mostre le va a vedere. Nell’ultimo programma che ho condotto mi è stato chiesto di aprire un blog e di scrivere della mia passione. Era il momento dell’esplosione dei social e io ho iniziato contemporaneamente a pubblicare ogni mia visita nei musei con foto e video. In brevissimo tempo ho iniziato a scrivere per diverse testate e sono cosi passata dall’intervistare cantanti all’intervistare artisti. Praticamente la musica mi ha riportato all’arte. Oggi direi un ritorno inevitabile".

Quando ha capito che anche curare mostre d’arte era qualcosa che le piaceva molto?

"In realtà da poco. A dire il vero, non avevo mai pensato di farlo con mostre di arte esclusivamente fisica. Da quando però ho iniziato a occuparmi di arte digitale mi sono ritrovata a farlo in maniera naturale. L’approccio immersivo, la contaminazione multimediale e anche semplicemente un’affinità - che non saprei definire bene - insieme ai nuovi linguaggi per esprimerla, mi ha spinto naturalmente verso l’organizzazione di eventi d’arte legati al digitale ed infine alla curatela (occuparsi degli aspetti organizzativi di un'esposizione artistica, ndr). Le nuove tecnologie legate all’arte forniscono anche nuovi mezzi che permettono agli artisti di esprimersi con un nuovo linguaggio. Semplicemente quindi cambia il supporto, ma la creatività è la stessa. L’arte si evolve, cambia forma, contesto, universo ma non potrà mai mancare il fondamento dell’atto creativo ed artistico, che c'è nell'idea.

Come secondo lei, l’arte può cambiare la vita delle persone?

"L’arte è sempre segno dei tempi. Spesso oltre a raccontare bellezza, parla di urgenze, si dedica a cause particolarmente rilevanti nella fase storica in cui si trova. Proprio durante la pandemia c’è stato un grande ritorno alla sua funzione sociale, con una particolare attenzione a quelle derive negative che sempre più tendono a portare alla distruzione il mondo sia a livello ecologico che sociale. L’arte ha un impatto emotivo tale sull’animo umano da essere uno dei più potenti vettori per una seria messa in discussione della propria coscienza. Funziona molto meglio di dibattiti o discorsi più o meno complessi e comunque delle parole. L’arte invece è emozione, intensa, immediata e può essere in grado di cambiare il pensiero e i valori di un essere umano anche in un solo istante".

Come ha cambiato la sua?

"Dal punto di vista pratico è diventata il mio lavoro che ha coinciso con la mia passione e mi fa viaggiare tantissimo e girare il mondo per seguire ciò che avviene nel mondo dell’arte. Per il resto, però, è difficile dare una risposta, dato che come dicevo ha sempre fatto parte della mia vita".

L’ultima mostra che ha curato ha un tema molto attuale…

"Si chiama “The Inner War” e sarà presentata alla galleria Valuart a Lugano il 26 ottobre ma è un progetto che ha avuto una lunga gestazione con gli artisti e in collaborazione con Raffaella De Chirico. Il tema è quello dello strazio e della contraddizione interiore delle persone in uno scenario apocalittico, purtroppo sempre molto attuale come è quello della guerra. Sembrerebbe quasi che questa mostra arrivasse proprio “al momento giusto”, visto che dopo il conflitto Russia-Ucraina, nelle ultime settimane si è riaperto anche quello senza fine tra Israele e Palestina. La verità è che non esiste neanche questa coincidenza, perché la Pace - che noi resperiamo solo perché ci ritroviamo in una situazione privilegiata, in Italia come in gran parte dell’Occidente - di fatto non c’è praticamente mai e la mostra, che vede la collaborazione di due artisti Nico Mingozzi e Manu Brabo, ha la funzione di ricordarci proprio questo perché siamo abituati a girarci dall’altra parte, a dimenticarci quello che succede costantemente nel mondo.

La guerra esiste, la sofferenza esiste e a volte è proprio l’arte che può provare a smuovere le nostre coscienze e ben venga questa funzione sociale, educativa e anche informativa, piuttosto che accorgersene solo quando vengono proposte con una certa insistenza dai media. Ci sono delle guerre che risuonano più di altre, rimbalzano più di altre nei notiziari. E altre che la gran parte della gente non sa neanche che vanno avanti da anni. C’è chi la guerra invece va a viverla sul campo come Manu Brabo, fotoreporter che non a caso ha vinto un Pulitzer per questo suo impegno. E la sua interazione con Nico Mingozzi, che il Pulitzer non l’ha vinto ma che opera su un altro piano di sensibilità, credo appunto che possa aiutarci a percepire lo strazio che chiunque sia coinvolto in una guerra in un modo o nell’altro vive, qualunque sia il suo ruolo o forza interiore. Essere coinvolti in una cosa ti porta a percepirla più facilmente. E se non ci basta quello che leggiamo, quello che cerchiamo di capire, a prescindere dalle diverse posizioni, abbiamo anche questo mezzo, questa mostra. Inoltre il ricavato delle opere, sia digitali che fisiche, sarà totalmente devoluto a Medici Senza Frontiere".

Nel nostro Paese nonostante i passi avanti, l’arte e le mostre sembrano ancora qualcosa di nicchia. Cosa bisognerebbe fare secondo lei per renderle alla portata di tutti?

"Veramente la situazione dell’arte nel nostro Paese non è poi così male... nel contesto dell’arte digitale, per esempio, i nostri artisti sono tra quelli più all’avanguardia. Le mostre non sono poi così di nicchia: spesso sono più frequentate dei cinema. Sarebbe auspicabile - ma sta sempre più accadendo - che il settore Pubblico, le istituzioni museali, fossero più pop nell'organizzazione e curatela di mostre, rendendole sempre più eventi intrattenenti.

Ma sarebbe anche auspicabile un maggiore intervento del settore privato, che - in stile americano - portasse più entertainment negli eventi artistici: diciamolo, gli americani non avranno una grande tradizione artistica, ma dal punto di vista dell’entertainment sono piuttosto bravi. E questo genere di cose forse le fanno meglio i privati, noi abbiamo dei grandissimi musei che però a volte hanno un approccio un po' rigido e polveroso".

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