Non si può negare che George W. Bush abbia uno spiccato senso dell'umorismo. Davanti alla frana elettorale di Midterm, che consegna ai democratici la maggioranza nel Congresso degli Stati Uniti, il presidente consegna a sua volta, alle agenzie di stampa e ai giornalisti, che lo assediano, la seguente dichiarazione: «Non si può sostituire qualcuno fino a che non hai nessun altro con cui sostituirlo». Citazione, peraltro non nuovissima, che rappresenta - e come tale passerà alla storia - l'epitaffio per l'uscita dal Pentagono e dalla scena politica americana di Donald Rumsfeld, il grande architetto della guerra in Irak, l'inseparabile compagno d'armi e di idee, a costo di difendere entrambe a caro prezzo, di George W. Bush.
Il «falco» dei falchi, spinto dalla ragion di Stato e sacrificato sull'altare dell'opportunità politica, lascia dunque il nido che si era costruito al ministero della Difesa e passa la mano all'ex direttore della Cia, Robert Gates. Ma, onore della verità impone di ricordare, in questa circostanza, che proprio George W. Bush ha cercato di difenderlo fino allo stremo. Incassando critiche, e velenosi editoriali sui giornali. Ultimo quello del New Yorker che, qualche giorno fa, gli rimproverava «di aver alzato in questi anni un muro di gomma per far rimbalzare ogni critica rivolta al capo del Pentagono». Nato il 9 luglio 1932 a Evanston, Illinois, ma di origini tedesche (suo nonno era di Brema), sposato con Joyce dal 1954, tre figli e sei nipoti, Donald Rumsfeld non si può definire uno che è passato inosservato nel firmamento della politica e della strategia diplomatico-militare internazionale. Tra i pochi ministri di Bush in carica fin dal suo avvento alla Casa Bianca, aveva portato in dote al nuovo presidente, nel 2000, un consistente bagaglio di esperienza. Rumsfeld aveva già fatto parte infatti dello staff del presidente Gerald Ford nel burrascoso periodo, era il 1974, del suo avvento allo Studio Ovale dopo le dimissioni di Richard Nixon. Il primo di una carriera dai lunghi passi che, l'anno dopo, lo porta a diventare, e a rimanere fino al 1977, il più giovane Segretario alla Difesa della storia degli Stati Uniti, dopo essere stato ambasciatore alla Nato. Dal 1983 al 1984 Rumsfeld è inviato speciale di Ronald Reagan nel Vicino Oriente e incontra, in questa veste, l'allora presidente dell'Irak Saddam Hussein.
È in quell'occasione che fa il giro del mondo la fotografia della sua stretta di mano con colui che sarebbe diventato, solo qualche anno dopo, il peggior nemico degli Stati Uniti. Fotografia che è stata ampiamente usata, girata e rigirata, come tanti altri dettagli della carriera di Rumsfeld, dai critici della strategia di guerra condotta dalla amministrazione Bush. Appena entrato al Pentagono mister Donald aveva ricevuto da Bush il compito di procedere a radicali riforme della struttura delle forze armate. Obbiettivo: rendere più agile e moderna la macchina militare degli Stati Uniti. Un incarico che lo ha costretto a prendere, inevitabilmente, decisioni scomode e dolorose che l'hanno messo in contrasto con diversi generali del Pentagono, innescando dimissioni e critiche anonime finite inevitabilmente sui media. Persino e soprattutto i quotidiani militari tipo Navy Times, Army Times, Airforce Times, gli stessi che ieri hanno scritto il medesimo articolo dal titolo: «Rumsfeld must go», Rumsfeld se ne deve andare. Una sentenza di «liquidazione» che non sembra ritrovarsi nella dichiarazione di due settimane fa del Capo degli Stati Maggiori riuniti degli Stati Uniti, Peter Pace: «Il Segretario della Difesa, Rumsfeld agisce ispirato da Dio. Non conosco nessuno che dimostri più patriottismo, energia e leadership. Rumsfeld prende la decisione che il Signore gli dice essere la migliore per il nostro Paese».
Ironia e critiche a parte, va detto che al Pentagono Rumsfeld non è stato lasciato solo, anche quando ha dovuto fronteggiare l'ondata di polemiche per lo scandalo di Guantanamo e per le torture inflitte ai prigionieri iracheni da alcuni militari americani. Al suo fianco si è sempre trovato altri membri della amministrazione Bush, come il vicepresidente Dick Cheney e l'allora consigliere per la sicurezza nazionale, Condoleezza Rice, dando corpo e forma con loro, al cosiddetto clan dei falchi a spese di gente più moderata come il segretario di Stato Colin Powell. Fatto sta che l'attacco dell'11 Settembre 2001 ha radicalmente mutato la missione e le priorità di Rumsfeld, costretto a centrare la sua attenzione prima sulla guerra al terrorismo e quindi sulla guerra in Irak. E quando le cose hanno cominciato a mettersi male, con l'affiorare di paralleli sempre più inquietanti con il pantano politico e strategico del Vietnam, è stato proprio lui, l'ingombrante Rusmfeld, a diventare l'immagine della guerra andata male. La decisione di sostituirlo è «un segnale positivo per i militari americani», il segnale che «il loro commander in chief continua a cambiare le sue tattiche», ha dichiarato Bush. Ma è un dato di fatto che, dopo il successo elettorale del partito di Nancy Pelosi, la testa di Rumsfeld è immediatamente finita sotto l'ascia della Casa Bianca. E ora? Ora ci mancherà labilità di Rumsfeld nelle conferenze stampa, dove il ministro della Difesa nelle schermaglie verbali con i giornalisti, aveva sempre più incarnato il simbolo, nel bene e nel male, delle scelte fatte dall'amministrazione Bush nella conduzione prima della guerra e quindi della pace e della ricostruzione in Irak.
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