Carissimo direttore, in questi mesi il prof. Massimo Recalcati sta proponendo con insistenza una sfida, quella di riaccendere nei giovani il fuoco del desiderio. Io mi chiedo come si possa, visto che siamo stati proprio noi adulti non dico a spegnerlo, ma a ridurlo a brace incandescente. Io penso che si possa fare come con i camini, quando si aggiunge nuova legna alle braci e il fuoco riprende a salire e a scaldare l'ambiente. Fuori di metafora, penso che la strada sia un fuoco che brucia già e che fa bruciare quello sopito di tanti, sia giovani sia adulti. Ci vuole un fuoco vivo che si espanda verso gli altri e li accenda, bisogna saper vedere i fuochi accesi e lasciare che ardano. Chi sono questi fuochi che ardono già? Possono essere giovani o adulti o anziani, e sono certamente persone che sanno ascoltare il loro cuore e hanno uno sguardo umano verso ogni altro, lo sanno prendere per quello che è, non pretendono che sia diverso in quanto riconoscono che così come è vale. Di questo abbiamo bisogno tutti, in primis i giovani. Così si accende il fuoco del desiderio con uno sguardo. In questi anni ho visto tante persone rinascere perché hanno incontrato chi le ha guardate e ha detto loro «tu come sei vali!». Non «tu se sarai così vali».
Gianni Mereghetti
Caro Gianni, mi piace molto il concetto da te espresso, peraltro con la metafora efficace del fuoco, della fiamma che arde e che a sua volta accende, riguardo il desiderio, qualcosa che manca non soltanto nei giovani, i quali dovrebbero esserne traboccanti, ma in generale nel mondo, nella società. Divampa, tu dici, colui che sa ascoltare il suo cuore e che osserva l’altro con amore, senza giudizio, non andando alla ricerca dei difetti di chi gli sta davanti, bensì della bellezza. Chi di noi riesce a guardare in questa maniera? Pochi. Il nostro occhio e la nostra mente sono allenati a ravvisare il brutto, quello che non va, allo scopo di soddisfare il nostro intrinseco bisogno di lagnarci, di essere dannatamente e irrimediabilmente infelici.
Io stesso, per deformazione professionale, mi capiranno i colleghi, sono addestrato ad individuare e concentrarmi su quello che è marcio, allo scopo di denunciarlo, di raccontarlo, di tuonare. E questo consuma, logora, appesantisce. La severità che riserviamo al prossimo è la stessa con la quale trattiamo noi stessi e con la quale siamo stati trattati.
Come se ne esce? Beh, forse imponendoci di cercare il bello, il bene, il buono nelle persone e nelle cose che ci circondano, lasciando che quella fiamma bruci in noi e divenga più viva negli altri perché, come sottolinei, ognuno di noi necessita di sentirsi apprezzato per quello che è, amato per ciò che è, con i suoi difetti, le sue lacune, i suoi traumi, le sue ferite, quel bagaglio che di mese in mese, di anno in anno, diventa sempre più pesante e che ciascuno di noi si porta dietro. Per molti quel bagaglio è un ingombro, un limite, un impedimento che ci ostacola nella scelta di aprirci agli altri, di donarci, di amare e di farci amare. Invece esso dovrebbe costituire lo strumento che ci consente di amare più profondamente e di vedere meglio le persone su cui si posa il nostro sguardo, ossia di comprenderle. Mi sono chiesto spesso cosa renda ardua questa apertura. Io ritengo che sia la paura. Più facile allora vedere il male che il bene, perché è più facile odiare che amare.
Amare implica il rischio di restare feriti, delusi, di essere abbandonati, traditi, ingannati, più facile è chiudersi piuttosto che darsi.
I giovani oggi sanno amare? No. Esattamente come noi.
Forse essi ancora meno. Ecco perché ardono poco o non ardono affatto. È l’amore verso qualcosa o qualcuno a ravvivare il desiderio di fare, di creare, di lottare, di essere migliori, di vincere, di costruire, di farcela. Anche in economia è l’amore che induce al risparmio, quindi ad accumulare risorse, a produrre un patrimonio. In politica è la passione che conduce a battersi per i propri ideali. In qualsiasi mestiere a spingere al successo è la medesima bramosia. Occorre amare quello che si compie per compierlo bene. E a questi giovanissimi che escono di casa armati di coltello o addirittura di pistola, cosa manca e cosa è mancato se non l’amore? Non desiderano più nulla, perché hanno tutto e perché quello che non hanno pure è a portata di mano, disponibile. Il paradosso della società dei consumi: una società dove tutto si può acquistare e consumare, dove ogni capriccio può essere appagato nell’immediato, ma che ci priva di qualcosa di essenziale, di vitale, ossia della possibilità di desiderare ardentemente non di possedere cose materiali ma di essere, di divenire. Peccato che il desiderio non possa essere acquistato su Amazon o al supermercato. Ci tocca coltivarlo. Ci tocca essere privi di qualcosa per volere quel qualcosa. Ci tocca soffrire per incendiarci.
«Tu vali così come sei», beh, dovremmo dirlo ai nostri figli e ai nostri nipoti, esortandoli allo stesso tempo ad essere la versione migliore di loro stessi. Tu vali non perché possiedi, non per come appari, non per quanti like ottieni su Instagram, non in base al tuo successo, alla tua taglia, al tuo peso, non in base al tuo conto in banca, ma tu vali per quello che hai dentro. E forse certe parole non te le aspettavi da un uomo come me, che risulta troppo spesso burbero e cinico.
Eppure la tua lettera, caro Gianni, mi è piaciuta. E la pubblico e condivido affinché il lettore, chiunque legga, sia indotto, come me, a riflettere sull’importanza di spalancare gli occhi sull’altro. O semplicemente il cuore.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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