
Se dentro alla storia delle Brigate Rosse c'è una parte non raccontata, da ieri quel pezzo non avrà più voce. A settantotto anni è morto l'unico fondatore delle Br che in questi anni aveva parlato di un'altra faccia del «partito armato» in Italia: Alberto Franceschini, nato a Reggio Emilia nel 1947. Il luogo di nascita è importante. Perchè lo lega a uno dei due filoni che diedero vita alle Br: da una parte il gruppo dei cattolici allevati nella facoltà di Sociologia di Trento, come Renato Curcio e Mara Cagol. E il gruppo dei reggiani cresciuti nel Pci del «triangolo rosso» con il nel mito della «Resistenza tradita», addestrati al fuoco con le armi imboscate dai partigiani. Lui, Lauro Azzolini, Franco Bonisoli, Prospero Gallinari. Nel 1969 Franceschini si dimette dal direttivo della Federazione giovanile comunista. É l'inizio del percorso che lo porterà a Milano, nelle fabbriche dove si muove l'ala dura dell'autunno caldo e dove nascerà il terrorismo rosso.
Lo catturano presto, quando la parabola delle Br è nella fase ascendente: a un passaggio a livello a Pinerolo, l'8 settembre 1974, un posto di blocco dei carabinieri intercetta un automobile, a bordo ci sono lui e Renato Curcio. La prigionia di Curcio dura poco, cinque mesi dopo Mara Cagol attacca il carcere di Casale Monferrato e lo libera con incredibile facilità. Franceschini invece resta in carcere. A lungo, nel complicato universo dei brigatisti detenuti, fa parte degli irriducibili. É tra quelli che dalle gabbie minacciano di morte giudici e avvocati. Che rivendicano le imprese dei compagni ancora liberi.
Poi, qualcosa si rompe. Espia la pena. Torna libero, come tutti i suoi compagni di un tempo. Non si pente, non entra nel rango degli «infami». Ma forse fa qualcosa di peggio. Apre, un pezzo dopo l'altro, a una rilettura dell'esperienza brigatista che comprende l'esistenza di una «zona grigia», di una sfera di rapporti con apparati deviati: che lo mette in rotta di collisione con il resto della sua generazione brigatista, che oggi ha come obiettivo principale rivendicare la genuinità dell'esperienza Br, nata nel solco del movimento operaio.
Sì, dice Franceschini in libri e interviste, la genesi fu quella. Ma poi accadde dell'altro. In una delle sue ultime interviste accusa Mario Moretti, l'unico ancora detenuto del nucleo storico, di avere fatto arrestare lui e Curcio. Ma prima di allora, aveva detto altre cose indigeste agli altri reduci, a partire dal suo libro «Mara, Renato ed io».Aveva lanciato accuse che toccavano nel cuore l'apoteosi della saga delle Br, il sequestro Moro: accusando Moretti e gli altri della direzione di avere deciso da soli l'esecuzione dell'ostaggio. Uno dei duri della direzione, Pierluigi Zuffada, replicò rinfacciandogli di avere chiesto dal carcere uno scambio tra i detenuti (lui compreso) e Moro: «un errore madornale che chiuse tutte le possibilità di manovra».
Di fatto, «Franz» sposa le tesi dietrologiche di Sergio Flamigni e della commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Moro. Da quel momento, per gli ex compagni è un bugiardo e un nemico. Non c'erano, i vecchi delle Br, al suo funerale.
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