È andato a trovarla in carcere, le ha preso le mani tra le sue, l'ha guardata negli occhi. E ci ha visto una ragazza fragile ma con una vita davanti, non una carnefice. Con il nodo in gola e con il cuore a pezzi, Silvio Pezzotta è riuscito a perdonare Elisabetta Ballarin, la «Bestia di Satana» che quella maledetta notte del 2004 ha fissato sua figlia morire a terra senza muovere un dito per aiutarla. Magari avrebbe potuto salvarla. Lui, che in fondo non ha smesso di essere padre, è riuscito ad andare oltre la rabbia, il dolore, il ribrezzo per quella che per noi è stata una della pagine più assurde della cronaca nera italiana, per lui il peggiore degli incubi. Pezzotta ha dato alla ragazza, ora laureata, le «chiavi» per uscire dal tunnel, una chance per redimersi. Senza retorica. Un gigante. Sta cercando di perdonare anche Monica Marchioni, dopo che suo figlio Alessandro nel 2021 ha cercato di ammazzarla con un piatto di pennette al salmone avvelenate. Ma per lei il percorso morale è ancora lungo: da un lato continua a rivivere il film dell'orrore in cui si è trovata, dall'altro si sente mamma e vorrebbe riabbracciare suo figlio.
La sua storia fa riflettere su cosa sia il perdono, sulle difficoltà per raggiungerlo. Un comandamento evangelico, un atto morale, una strategia del nostro cervello per liberarsi di un fardello che ci impedisce di vivere? O forse tutte queste cose messe assieme? Sicuramente, per chi viene perdonato, è un nuovo bonus per provare a redimersi, per ricominciare da qualche parte e dare seguito, se c'è, al pentimento. Al di là degli anni di carcere e delle condanne. Celebre è il perdono di un altro padre, Francesco di Nardo. Non ha mai lasciato sola la figlia Erika, che assieme al fidanzatino Omar, a Novi Ligure nel 2001, ha ucciso sua moglie e il figlio più piccolo con una crudeltà premeditata e impensabile per una ragazzina. Ha scelto di continuare ad essere suo padre, di occuparsi dell'unica persona rimasta della sua famiglia.
IL DIRITTO A NON PERDONARE
È vero che perdonare può aiutare a superare un trauma e guardare avanti. È vero che è un gesto nobile e fa solo onore a chi lo compie. Ma esiste anche il diritto a non farlo. È quanto sostengono gli psicologi. Non per forza lavorare sul torto subìto porta all'«assoluzione» di chi lo ha commesso. Lo spiega bene Luca Pezzullo, presidente del'Ordine degli psicologi del Veneto: «Nei percorsi di elaborazione di grossi traumi, non sempre si arriva a superarli. Accade un po' come nelle terapie di coppia: non per forza si deve rimanere assieme, a volte si concorda che la soluzione migliore sia separarsi. Socialmente ci aspettiamo che la vittima perdoni, c'è una pressione sociale per cui se non perdona allora è cattiva anche lei. Ma nei percorsi di psicoterapia l'obbiettivo non è perdonare per forza. È rielaborare, per poter costruire un nuovo ordine dopo (e nonostante) il caos che il trauma ha creato».
LA GIUSTIZIA RIPARATIVA
Se nei percorsi psicologici delle vittime per elaborare in perdono è spesso utile che il colpevole mosti il suo pentimento (non solo a parole), anche la giustizia sembra seguire una strada simile. Con la riforma Cartabia ha preso più consistenza il concetto di giustizia riparativa, che porta a ripensare l'intero sistema penale. Di fatto, si va oltre la mera colpevolizzazione, oltre la punizione. Chi commette un reato non è più solamente colpevole. Diventa piuttosto un agente, in negativo ma anche in positivo, perché capace di capire le sue colpe e di rimediarvi. La chiave di questa dinamica è il dialogo ed il confronto tra la vittima, l'offensore ed il suo entrourage di recupero. Si cerca di puntare sul «porre rimedio». Sul «farsi perdonare».
LA SCUOLA AMERICANA
Negli Stati Uniti esistono veri e propri centri di psicologi per l'elaborazione del perdono. Uno dei metodi più seguiti è quello di Everet Worthington, professore di Psicologia alla Virginia university, che partì da un trauma personale (lo stupro e l'uccisione della madre) per elaborare un «vademecum» utile ai suoi pazienti. Uno dei passi fondamentali per arrivare a perdonare, sostiene, è provare compassione, cioè identificarsi con l'aggressore, cercando di capire le sue emozioni. Per questo propone il metodo della sedia vuota, uno modo per simulare un dialogo fittizio con la persona che ha commesso il crimine. Altro passaggio consigliato è la compilazione di una lettera, per «certificare» l'impegno al perdono e, in qualche modo renderlo pubblico.
Ma le sfumature sono infinite. E un conto è perdonare una persona della propria famiglia o conosciuta, un altro conto è perdonare un estraneo. Le storie di chi ci è riuscito possono essere la chiave per capire il complicato meccanismo (morale e cerebrale) che regola la scelta. Che inverte la rotta.
LE VITTIME DEGLI ATTENTATI
Gemma Calabresi, vedova del commissario Luigi ucciso negli anni Settanta da un commando di Lotta Continua, è riuscita a parlare di perdono solo dopo 50 anni dall'attentato. Un percorso interiore lento, pieno di ostacoli e rancori, ma profondo, molto intenso, che le ha permesso di «spezzare la catena dell'odio» e liberarsene come spiega nel suo libro «La crepa e la luce». Un modo per ricucire una ferita personale e di tutto il Paese che ha segnato anni di terrore. «Il metodo dei terroristi - ha raccontato tante volte nelle scuole - in quegli anni era quello di disumanizzare la persona che volevano colpire: lo facevano diventare un simbolo così da poterlo eliminare, autoconvincendosi di essere nel giusto. Anche io facevo così e consideravo i terroristi degli assassini. In questo modo non riconoscevo la loro umanità. Prima di essere assassini erano figli, mariti, padri. Ho ridato loro la propria umanità, questo è perdonare».
Indimenticabili, nel 1992, le parole che Rosaria Costa, vedova dell'agente Vito Schifani, della scorta di Giovanni Falcone, pronunciò ai funerali per le vittime della strage di Capaci. Per stare in piedi accanto al leggio ha dovuto aggrapparsi al braccio del parroco, ma al microfono ha sfoderato tutto il suo coraggio e, tremando, si è rivolta agli autori dell'attentato: «Io vi perdono ma vi dovete mettere in ginocchio» ha detto con riluttanza e una sofferenza che hanno fatto il giro di tutti i telegiornali. Al di là di quella frase simbolo, che era insieme perdono e accusa, superare il dramma per lei è stato molto più complicato. Così come per l'Italia degli ultimi 30 anni.
OLTRE L'ODIO
Carolina Porcaro nel 2011 ha perso suo figlio Lorenzo, 18 anni, ferito mortalmente da un coetaneo originario dell'Ecuador fuori da un bar di Sovico (Monza) con il coccio di una bottiglia. Per una lite, una stupida lite. E lei, devastata dal dolore, ha sfoderato tutta la fede cristiana che ha sempre avuto: «Vorrei che tutti potessimo tornare a casa lasciando da parte ogni rancore, per un rinnovato senso di amore - aveva scritto nella lettera letta da un'amica durante la messa per Lorenzo - Vorrei fare arrivare il mio abbraccio al ragazzo che mi ha tolto il figlio e ai suoi genitori perché deve vincere il bene. Soprattutto a voi ragazzi vorrei dire che mai dobbiamo permetterci di offendere una persona ma imparare a essere un po' più umili».
E infine il perdono dei perdoni, atteso ma non scontato. Quello di Papa Giovanni Paolo II nei confronti di Alì Agca, il terrorista turco che nel 1981 gli sparò due colpi di pistola al petto in piazza San Pietro a Roma. Dopo l'attentato, papa Wojtyla decise di scrivergli: «Caro fratello, come potremo presentarci al cospetto di Dio se qui, sulla terra, non ci perdoniamo a vicenda?». Quella lettera non venne inviata per timore che venisse strumentalizzata.
Ma Wojtyla voleva vedere in faccia il suo attentatore, capire, compiere un gesto di perdono. Così, decise di andare a trovarlo nel carcere di Rebibbia dove stava scontando l'ergastolo. E gli prese le mani. Alì Agca non chiese scusa. Nè in quell'occasione nè mai.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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