Auto, autunno in chiaroscuro: qualche luce, molte ombre

Se i dati Istat di settembre vedono un aumento a doppia cifra del settore automotive in Italia e l'aumento delle vendite nei 5 mercati chiave europei induce all'ottimismo, le nubi all'orizzonte non mancano. Dalla crisi dei chip che rischia di avvitarsi su sé stessa alla dipendenza dai produttori di batterie cinesi, il 2023 dell'industria automobilistica potrebbe essere molto complicato

Auto, autunno in chiaroscuro: qualche luce, molte ombre

Gli ultimi mesi dell’anno sono sempre un momento critico. Con l’anno ormai andato, è il momento di guardare avanti, fissare obiettivi, decidere tempistiche e budget. In tempi di crisi, specialmente quando in grado di travolgere un intero settore, i grattacapi si moltiplicano. Dopo un biennio da dimenticare, molti nel settore automotive stanno osservando con crescente preoccupazione i prossimi trimestri, cruciali per la tenuta di un comparto che impiega centinaia di migliaia di lavoratori. Se molti speravano in una schiarita all’orizzonte, il panorama è alquanto confuso. Se da una parte non mancano segnali di ottimismo, i problemi che hanno spinto l’industria sull’orlo del baratro non sono stati risolti.

Auto, toccato il fondo, inizia la risalita?

Gli ultimi dati forniti dall’Istat sembrerebbero estremamente positivi, ma vanno letti con una certa cautela. Il rapporto, integrato dai dati preliminari dell’Anfia, l’associazione degli industriali del settore, vede solo dati positivi, con crescita in coppia cifra. A settembre un solido +11,7% della produzione industriale, che diventa ancora più impressionante se si guarda solo alle auto. La produzione del settore auto in Italia sarebbe in aumento del 25,9% nel mese di settembre, dato che si converte in un +4,1% per i primi tre trimestri del 2022. Anche il fatturato dell’industria vede un +23,9% ad agosto, con dati incoraggianti che provengono specialmente dai mercati esteri. Il direttore dell’Anfia Gianmarco Giorda si dice soddisfatto ma invita alla cautela, visto che il settembre 2021 era stato uno dei peggiori degli ultimi anni. Il numero di vetture prodotte in Italia dovrebbe chiudere attorno a 750.000 unità, un -6% rispetto ad un non esaltante 2021 e ben lontano dalla soglia ideale del milione di unità, considerato da molti esperti il minimo per garantire la sopravvivenza degli impianti esistenti.

Pochi giorni fa, i numeri del mercato auto europeo avevano fatto tirare un respiro di sollievo a molti. Per il terzo mese positivo si registra un convincente +14,1% rispetto all’ottobre 2021, uno dei più negativi degli ultimi anni. I livelli prepandemia sono ancora lontani ma la prospettiva di poter recuperare buona parte di quel 25% perso non è irrealistica. Paolo Scudieri, presidente Anfia, si dice moderatamente ottimista: anche se i primi 10 mesi dell’anno sono sempre in territorio negativo, il peggio sembra alle spalle. D’altro canto, se tutti i cinque mercati principali europei sono in netto rialzo, tutto potrebbe cambiare a breve. La fiammata inflazionistica, il rialzo dei tassi d’interesse, i rincari dell’energia e delle materie prime alimentano un clima di incertezza che rende quasi impossibile la programmazione. Aggiungete poi l’intenzione dell’Unione Europea di bandire le auto con motore a combustione interna ed il quadro di una tempesta perfetta prossima ventura è completo.

Crisi dei chip, nessuna schiarita

Se i dati sembrano incoraggianti, il perdurare della crisi dei chip potrebbe complicare la ripresa. Invece di migliorare, la questione dell’approvvigionamento dei chip necessari per le vetture moderne si sta avvitando su sé stessa. John Sicard, ceo della ditta di logistica canadese Kinaxis, non mena il can per l’aia: “chip che una volta costavano 5 dollari oggi ne costano 85 ma non è il problema più grave. Anche se le industrie fossero disposte a pagare, i costruttori non possono costruirne abbastanza. La scarsità di chip potrebbe durare da tre a cinque anni”. Altri esperti fanno previsioni ancora peggiori. A soffrire, chiaramente, i costruttori di auto. La Ford ha oltre 40.000 auto incomplete nei propri piazzali. Se il management spera di riuscire a smaltirle prima della fine dell’anno, il ceo John Lawler ha dichiarato che episodi del genere si ripeteranno quasi sicuramente nel 2023. Se la Toyota ha annunciato il dimezzamento della produzione negli impianti giapponesi, il costruttore indiano Maruti Suzuki è decisamente più pessimista. Il direttore di marketing e vendite Shashank Srivastava non riesce a prevedere il ritorno alla normalità, nemmeno a medio-lungo termine. A complicare ancora di più le cose, le nuove sanzioni nei confronti della Cina da parte del governo americano.

auto elettrica

Alcune ditte guardano già più lontano, dando per scontato che la crisi non sia affatto alla fine. Stellantis ha chiuso un accordo pluriennale con il gigante dei semiconduttori Infineon per la fornitura di chip di nuova generazione ai propri fornitori ma si parla esplicitamente di “seconda metà del decennio”. Un accordo importante, dal controvalore di oltre un miliardo di euro che sembra pensato per le nuove auto 100% elettriche del colosso franco-italiano, che dai nuovi chip potrebbero guadagnare autonomia, efficienza e prestazioni. Come mai non si affronta di punta un problema tanto serio? La risposta è arrivata qualche giorno fa da Jean-Philippe Imparato, ceo di Alfa Romeo a margine della presentazione della Tonale Phev. “I chip per me non sono la cosa più grave, non sono un grande problema. Credo sia più importante il contesto economico dei chip. È più importante che le persone si trovano a far fronte a inflazione, tassi di interesse, recessione, aumento della bolletta”.

Il nodo gordiano delle batterie

A gettare ancora più acqua sul fuoco della ripresa, un rapporto pubblicato recentemente dalla potente banca d’affari Goldman Sachs. Pochi mettono in dubbio il fatto che la dipendenza dalle batterie prodotte in Cina nell’ambito della transizione ecologica sia una situazione potenzialmente altrettanto pericolosa della dipendenza dal gas russo. Senza dotarsi di una robusta infrastruttura produttiva domestica, i costruttori europei sarebbero totalmente alla mercé dei partner cinesi, quasi monopolisti sia in termini di batterie che di materie prime. Non molti, però, si rendono conto di quanto costerebbe questa transizione. Una stima conservativa della banca statunitense parla cifre da far rabbrividire: 78,2 miliardi di dollari per le batterie, 60,4 per i componenti, 13,5 per l’estrazione di litio, nichel e cobalto ai quali se ne aggiungerebbero 12,1 per la loro raffinazione. Un conto da capogiro che verrebbe diluito negli anni ed andrebbe ripartito tra i vari paesi, certo, ma pensare che non venga prima o poi riflesso nel costo dei veicoli finiti è quantomeno irrealistico. Invece di procedere verso economie di scala, con la promessa riduzione dei costi delle batterie e dei veicoli elettrici, i prezzi potrebbero procedere quindi in direzione opposta, uscendo dalle possibilità di ampie fasce di popolazione anche nei paesi più ricchi.

Un problema quasi intrattabile che rischia di vedere le industrie europee sciogliersi dalla dipendenza cinese per consegnarsi a quella americana. Gli Stati Uniti, infatti, si sono mossi per tempo, offrendo massicci sussidi ai conglomerati sudcoreani Lg ed Sk, due aziende leader che hanno iniziato la costruzione di enormi impianti in America, tali da poter assorbire buona parte della richiesta di batterie nei prossimi tre-cinque anni. Qualcosa del genere si muove anche in Europa, ma in scala decisamente minore. Insomma, per farla breve, le industrie ed i governi europei dovrebbero spendere centinaia di miliardi di euro per passare da un fornitore straniero ad altro. Una situazione che potrebbe far ridere se in gioco non ci fosse un settore critico per l’economia europea. C’è chi dice che la crisi del mercato entertainment, per il quale si preannuncia un Natale da dimenticare, convincerà produttori di punta come Samsung e Hynix a dedicarsi al settore automotive. Altri suggeriscono ai costruttori di passare a prodotti più moderni, che offrano margini di profitto migliore per i fabbricanti di chip, così da risolvere alla base il problema nel giro di qualche trimestre.

Tutto possibile, ma convertire impianti di produzione non è una roba che si fa dall’oggi al domani. Insomma, se i numeri di ottobre inducono ad un moderato ottimismo, le minacce sistemiche rimangono fin troppo attuali. Sperando, ovviamente, che la luce alla fine del tunnel non sia il proverbiale treno...

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