Basta: vietiamo i bermuda in città

Milano, ore 22 circa. Fuori ancora 29°, dentro aria condizionata. Ristorante elegante, uno sguardo ai tavoli accanto: bella gente, vecchia borghesia meneghina mescolata a giovani manager rampanti, non mancano personaggi più eccentrici che sicuramente appartengono al mondo della pubblicità e della moda.

Sto leggendo il menù mentre la coda dell’occhio intercetta qualcosa di anomalo, metto a fuoco: da sotto una bianca tovaglia spunta all’improvviso una tozza gamba pelosa che sparisce in un calzino alto non più del malleolo e, poi, in un paio di scarpe da ginnastica.
Alzo lo sguardo, ma sopra al tavolo pare tutto normale: un uomo sui 30-35 anni galleggia dentro una fresca camicia larghissima. Sta pagando il conto, carta di credito e mancia. Si alza insieme con la ragazza che gli sta di fronte: indossa un paio di bermuda sfiancati e sgarrupati ed esce senza alcun disagio percorrendo i metri che lo separano dalla porta quasi fosse su una passerella. Cerco con gli occhi negli sguardi degli altri clienti lo stesso stupore e disgusto che, sono certo, mi si legge sulla faccia. Qualcuno segue l’uscita e noto che è costretto a ignorare le gambe di lei, per altro bellissime, colpito dai peli neri di quelle di lui.

Frequento il ristorante da trent’anni. Me lo posso permettere, chiamo il proprietario e gli chiedo come ha potuto acconsentire che un individuo vestito in quel modo entrasse nel suo locale. «Mica lo posso mandare via perché è in pantaloni corti - mi risponde -. Nemmeno a me piace, ma i ragazzi di oggi vestono così». La sua rassegnazione aumenta il mio fastidio, non ci sto a soccombere davanti a una moda così inelegante. L’estate in città, ormai, significa convivere con degli sconosciuti convinti d’essere al mare. Certo, ognuno è libero di vestirsi come più gli piace, però deve rispettare gli altri. Mi ricordo quando una notte il portiere del Charly Max, il locale allora più chic ed esclusivo di Milano, non mi fece entrare solo perché non indossavo la cravatta. Mi sentii in imbarazzo e presi quel cortese divieto come una ramanzina.

Era il 1970 e i sarti non erano ancora stilisti. Vestirsi eleganti non significava, come s’intende oggi, mettersi un abito scuro, camicia e cravatta. L’eleganza era uno stile di vita, si poteva essere elegantissimi anche con una maglietta e un paio di pantaloni sportivi. Bisognava sapere quando e dove si doveva andare, il resto veniva da sé. Insomma, la classe non era acqua.

Poi la moda è diventata un’industria costretta a offrire ogni stagione qualcosa di nuovo. Via il classico che aveva il difetto d’essere eterno. E inevitabilmente l’eleganza è stata sacrificata sull’altare della produzione. Allunga la gonna e stringi i pantaloni, l’anno dopo accorcia la gonna e allarga i pantaloni: avanti così fino a quando le mutande non sono uscite dalle braghe, gli ombelichi dalle magliette e i bermuda d’ordinanza per le vacanze al mare non hanno cominciato a circolare perfino nel centro delle metropoli. Abbinati, ovviamente, a ciabatte, infradito e zoccoli.

Mi fosse concesso di diventare presidente del Consiglio, penso che alla prima riunione del governo presenterei un decreto legge per vietare l’uso dei bermuda nelle città, ai trasgressori multe

salatissime, se recidivi in cella per una notte, come si fa con gli ubriachi. In fondo, se quasi tutti i Comuni italiani investono milioni di euro per l’arredo urbano, perché nessuno fa nulla per salvare almeno il buon gusto?

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