Il bello (e il brutto) della diretta tv

«Che cosa prova in questo momento?», chiede l’inviato della tv al poverocristo che ha appena perso qualche familiare e la casa. Giusto per non ripetersi, alle successive vittime (del terremoto e del giornalismo) sono proposte alcune varianti: come si sente, ci dica una parola di speranza, passerà la notte in tenda?
La domanda-idiota sui luoghi del disastro è purtroppo parte integrante del bello della diretta. Il tempo va riempito sempre e comunque, anche quando non ci sarebbe niente da dire, anzi anche quando, semmai, ci sarebbe da tacere. Abbiamo visto cronisti tamburellare con le nocche della mano sui finestrini di gente che dormiva in auto: mi scusi, come mai ha preferito stare in macchina? Tra i miracoli dell’immediato post-terremoto, c’è indubbiamente l’inspiegabile assenza di risposte con pedata nel sedere inclusa. Altre volte il microfono sotto il naso dei parenti dei morti produce effetti di comicità involontaria. Sentiti il primo giorno i seguenti (e testuali) brani di interviste: «La prego: mi racconti la sua disperazione»; «Mi scusi, ma la devo interrompere sul più bello». Il «più bello» era il racconto del crollo della casa durante la notte.
Eppure, viva la tv. Anche se produce danni collaterali come quelli appena descritti, anche se ci riserva cadute di stile come l’esibizione dei dati di ascolto (c’è la gara a dire: «sul terremoto siamo i più seguiti» oppure «siamo arrivati prima», e pure questo è un po’ sciacallaggio) anche se ci riserva tutto questo, insomma, viva la tv. Viva la tv e viva internet, i telefonini, tutto l’armamentario delle nuove tecnologie che permettono al mondo intero di vivere in diretta lo «spettacolo» di un terremoto. Senza tanta rapidità e capillarità, i soccorsi non sarebbero arrivati così velocemente. Senza tante telecamere tra le macerie, non sarebbe già scattata tanta solidarietà internazionale.
Personalmente sono rimasto colpito, ad esempio, dall’immediato messaggio di Barack Obama. Credo che tutti l’abbiano dato per scontato. Ma mi son chiesto se Obama fosse stato a conoscenza, fino a dieci minuti prima, dell’esistenza di un luogo chiamato Abruzzo.
Il mondo di oggi, il mondo del villaggio globale e di una diretta tv che finisce per assomigliare al Grande Fratello, ha - fra i suoi effetti positivi - questo: il far cambiar programma ai Potenti della Terra riuniti in qualche vertice di alta politica; il dirottare la loro attenzione sul dolore di una piccola comunità di cui, altrimenti, si sarebbe ignorata l’esistenza almeno per giorni o settimane.
Ieri, alla trasmissione Melog 2.0 di Gianluca Nicoletti su Radio 24, si è ricordato che il terremoto di Lisbona del 1755 segna in qualche modo l’inizio di questa era moderna in cui ogni grande fatto è condiviso, e anche a migliaia di chilometri di distanza si percepisce che non si può restare indifferenti. Voltaire, ha ricordato Nicoletti, scrisse «di getto» un poema di 234 versi nel quale, fra l’altro, deprecava il fatto che mentre a Lisbona si piangeva e si soffriva a Parigi si rideva e di danzava. Ebbene: Voltaire scrisse quei versi, appunto, «di getto», non appena ricevette la notizia del disastro; e la ricevette a Ginevra il 23 novembre. Il terremoto è del primo novembre. Così viaggiavano, allora, le notizie.
E così hanno continuato a viaggiare per molto tempo. Sempre a Radio 24, la sociologa Bruna De Marchi ha detto che la notizia dello spaventoso terremoto di Messina del 28 dicembre 1908 (uno dei più disastrosi della storia, circa centomila morti) arrivò a Roma «circa una settimana dopo». Eppure era passato più di un secolo e mezzo dal poema di Voltaire e da quell’inizio dell’era moderna - e della concezione di villaggio globale - che fu il terremoto di Lisbona. Ma senza andare troppo lontano: l’altra sera, qui in redazione, abbiamo sfogliato la raccolta del Giornale per vedere come fu data, trentatré anni fa, la notizia del terremoto in Friuli. Sul numero della mattina seguente c’era un solo articolo, tutto in prima pagina, sotto un titolo di apertura che parlava di violente scosse di terremoto in Friuli, senza sapere nulla o quasi su danni e vittime. Eppure, il terremoto era delle nove di sera, e i giornali chiudevano allora ben oltre le due di notte.
Rileggendo le cronache di allora, e di terremoti ancor più lontani nel tempo, viene a volte da rimpiangere il fatto che i primi a descrivere il disastro erano quasi sempre grandi «penne»: come Silone, che raccontò da par suo la tragedia di Avezzano del 1915. Senza telecamere e senza dirette, la descrizione dello strazio era affidata alla capacità narrativa di grandi scrittori e grandi inviati che non banalizzavano e ci lasciavano testi degni della grande letteratura.

Oggi, la diretta e il web rendono inutili, perlomeno in prima battuta, certi sforzi narrativi. Ma hanno il pregio di far sapere immediatamente a un presidente americano che esiste un paese che si chiama Onna. E a tutti gli uomini di buona volontà che non bisogna chiedersi mai per chi suona la campana.

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