Il berlusconismo non è finito. I gufi sono stati sconfitti

Il berlusconismo non è finito. I gufi sono stati sconfitti

La parentesi non si è chiusa. Queste elezioni dovevano tracimare il «berlusconismo» giù, lontano, verso il passato e spazzare via una lunga stagione. Era la scommessa di molti, l’obiettivo dichiarato di Bersani e Di Pietro, del popolo viola e degli intellettuali giacobini. Il giorno dopo, con i risultati ancora incerti, c’è comunque una realtà che non si può ignorare. Il Cavaliere è ancora qui. Il voto non lo ha delegittimato. La «rivoluzione» non c’è stata.

La vigilia raccontava un altro clima. Il Pdl, con i pasticci delle liste, temeva il peggio. Lo stesso Berlusconi era preoccupato. Non pensava di stare così tanto in prima linea sul fronte delle regionali. Lo ha dovuto fare, da solo, con il suo partito frastornato e Fini defilato, praticamente assente. Berlusconi poteva cadere qui o perlomeno farsi male, e a quel punto sarebbe stato facile arrivare a un ultima spallata. Era uno scenario perfetto per i suoi avversari, una soluzione politica, quasi non forzata. Il voto di due anni fa cancellato dalle regionali. Ora invece è tutto più difficile. L’opposizione deve sperare in qualcosa di straordinario o extrapolitico. Le elezioni democratiche hanno di nuovo bocciato l’antiberlusconismo. Le prossime mosse saranno «sporche».

Su internet e tv scorrono le percentuali. Emma e Renata stanno sulla stessa linea, affiancate, ma le voci del sottobosco politico parlano di un colpo di reni finale della Polverini. Bossi sostiene che Cota ha vinto in Piemonte. Questo per l’opposizione è uno scenario devastante. È il Ko all’ultima ripresa. È il montante che non ti aspetti. Ma anche senza il Lazio il futuro non cambia. Il berlusconismo non è finito e sul terreno si contano gli sconfitti.

Non sarà facile per Bersani guardare in faccia D’Alema, con quel sorriso da «io te l’avevo detto». E poi ci sono gli altri: Veltroni, Bindi, Franceschini. Tutti in cerca di un capro espiatorio. Il Pd ricetta emiliana non ha un volto. È andato in scena solo e soltanto con le maschere degli altri. Sempre a ruota, sempre in ritardo, sempre a inseguire. Il Pd si è vestito da Di Pietro, da Bonino, in viola e radicale, da «repubblichini» e da micromeghi o da vendoliani extraparlamentari. Il secondo partito italiano è uno spazio vuoto da riempire. E questa è la peggiore di tutte le sconfitte.

Di Pietro almeno è uno specchio. È l’antiberlusconi. La sua immagine, seppure in negativo, come antitesi, perlomeno è definita. Queste elezioni per lui dovevano valere un referendum. Via il cavaliere oscuro, il tiranno, l’arcinemico, sommerso dai no, dal «non lo vogliamo più», da tutti quelli che sentono il freddo della crisi economica, dagli incazzati, dai martiri, dai nostalgici, da quelli che non ne possono più di Berlusconi, Berlusconi, Berlusconi. Di Pietro ci sperava, quasi ci credeva. Dove sono finiti tutti questi voti che Tonino percepiva nell’aria? Nel non voto. La scelta in questo Paese è tra Berlusconi e il nulla. È questo che i politologi giacobini continuano a sottovalutare. L’opposizione non è un’alternativa credibile. Non è credibile perché non gioca la sua partita sul campo della democrazia, ma cerca sempre scorciatoie antipatiche, illegittime, extrapolitica. Non si può rovesciare un governo con Spatuzza e la D’Addario e poi chiedere aiuto agli elettori. Anche quelli delusi da Berlusconi non ti credono. La disillusione diventa fuga dall’agorà. E chi non fugge, al Nord, sceglie la Lega. Bossi è un berlusconiano che non ha perso la sua identità. È l’alternativa nello stesso giardino di casa. L’ultimo miracolo politico del Senatùr è la sua classe dirigente.

Queste elezioni segnano la fine di un mito metafisico. Il centro è la grande illusione di chi sopravvive al Novecento aggrappandosi al rimpianto del doroteismo. Casini sta investendo tutto il suo capitale sul tramonto del bipolarismo. Qui si chiude una lunga storia. Quasi un anno fa, prima dell’estate, Fini, Casini e D’Alema hanno siglato un patto tacito per il domani. E dicevano: non c’è molto da aspettare, i tempi sono maturi. C’erano voci, sussurri, microfoni, intercettazioni. Tutti e tre stavano calibrando le mosse future sulla caduta di Berlusconi. La scossa stava per arrivare. Ora cambia tutto.

Le strategie vanno ridefinite. Lo sanno tutti e tre e più di tutti Fini. Il cofondatore si è chiamato fuori. La Polverini, sua «protetta», è diventata la candidata di Berlusconi. Il Cavaliere è ancora lì e Fini deve scegliere. Il futuro è arrivato.

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