Bersani «dimentica» Coop e Poste

Se bastasse il metro per misurare l’importanza delle riforme dei governi, la lenzuolata di liberalizzazioni proposte dal governo Prodi perderebbe il confronto con i cinque metri di riforme che il governo Berlusconi al suo esordio mostrò in Tv prima di presentarle in Parlamento.
Il fatto è che per diventare «riformisti» non basta gettare in pasto alla stampa ed all’opinione pubblica la compilazione di lunghi e frastagliati elenchi; perché si possono snocciolare chilometri di micro decisioni su barbieri, estetiste e facchini ma se manca una sola riga che dice «sono aboliti i privilegi delle cooperative», o che recita è «abolito il monopolio delle poste», tutto il resto rischia di contare assai poco.
Sgombriamo subito il terreno da ogni possibile equivoco: protezioni, corporazioni, privilegi, accordi di cartello più o meno espliciti ce ne sono un’infinità in Italia, il centrodestra non ha fatto di tutto per rimuoverle e vanno smantellati con la maggior celerità possibile. Ma stentiamo a vedere nei provvedimenti varati per decreto o in quelli annunciati nel disegno di legge Bersani quella svolta che «cambia il volto all’Italia», come ha coraggiosamente dichiarato il presidente del Consiglio.
La decisioni riguardano, sì 16 categorie, 500mila imprese, 800mila addetti e 38 miliardi di fatturato. Ma non è da queste cifre che si misura l’impatto delle liberalizzazioni. Le liberalizzazioni vanno giudicate per gli obiettivi che si propongono e per le potenzialità del Paese che intercettano.
Gli obiettivi sono tre: creare opportunità di lavoro che i divieti inibiscono; generare la concorrenza che i privilegi e il protezionismo soffocano; ridurre per queste due vie il costo dei servizi e dei prodotti per i cittadini. Ebbene, se proviamo a riclassificare le decisioni assunte a seconda di questi obiettivi, ne scopriamo poche utili, molte inutili, apparenti o dimezzate ma, soprattutto, tante liberalizzazioni assenti.
Qualche esempio? Tralasciamo la libertà di avviare attività di barbiere, estetista o facchino per le quali nessuna statistica o sondaggio aveva mai finora evidenziato una domanda tale da far pensare a moltitudini di aspiranti che bussano alle porte del governo e prendiamo la liberalizzazione dei cinema e dei benzinai. Nei cinema, dopo la grande novità del multisala, da anni ormai sono più le poltrone che gli spettatori, mentre per la rete distributiva dei carburanti, se c’è un problema da risolvere da almeno vent’anni, è che le pompe di benzina sono troppe non troppo poche; sicché sia i cinema che i benzinai non avrebbero bisogno di libertà di aprire ma di chiudere; dunque una liberalizzazione inutile. Vengono poi aboliti il costo di ricarica telefonica ed alcuni oneri e commissioni che riguardano i mutui. Qui è innegabile che alcuni vantaggi esistono soprattutto per la portabilità e l’estinzione anticipata dei mutui, ma siamo certi che i maggiori costi che banche e società telefoniche subiranno non saranno traslati totalmente sul consumatore con rincari dei tassi sui mutui e sulle tariffe telefoniche? Ecco dunque una liberalizzazione che se non genera concorrenza sarà anche dannosa. Inoltre, le novità preannunciate per il Pubblico impiego prevedono apprezzabilmente la mobilità e la valutazione della produttività dei pubblici dipendenti, ma se l’esecuzione e misurazione del «valore» dello «statale» viene affidata al sindacato capiamo bene che si tratta di una liberalizzazione apparente, come si è rivelata quella di luglio dei taxi.
Ed allora? L’amara conclusione è che il capitolo più duro da mandar giù è quello che non c’è, delle liberalizzazioni assenti. Lo Stato tiene ancora saldamente e discrezionalmente in mano il servizio postale, il governo avrebbe potuto liberalizzare i saldi dei commercianti, il lavoro straordinario nelle aziende, la gestione degli acquedotti, l’accesso ai servizi oggi gestiti in monopolio dalle aziende municipalizzate, la gestione dei Centri di assistenza fiscale appannaggio esclusivo di sindacati. E soprattutto la liberalizzazione, intesa come abolizione dei privilegi e protezionismi, delle cooperative.

È giusto che paghino meno contributi e meno tasse? Che se a destinare gli utili dell’azienda a riserva è un piccolo imprenditore le imposte si pagano al 100%, ma se la stessa cosa la fa una coop solo per il 30%? Che i tassi di interesse per una coop siano dal 25 al 50% più bassi? L’Italia non è più quella del 1948 e l’autorità sulla concorrenza ha il compito anche di eliminare le distorsioni del mercato. Ma su tutto ciò è il silenzio che prevale.

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