Se di mestiere crei edifici capaci di cambiare il volto del mondo, per te non può esserci un futuro a senso unico. In adrenalinico equilibrio tra calcolo e scommesse, il bravo architetto conosce la sfida: «Ogni giorno siamo chiamati ad anticipare il futuro, pur sapendo che sarà vissuto da comportamenti che non controlliamo», ci dice Stefano Boeri. Lo fa dal suo ufficio di Milano, dove il noto architetto, 60 anni appena compiuti, lavora su progetti globetrotter. Il suo Bosco Verticale al quartiere Porta Nuova Isola è del resto ormai un'icona universale (tra i tanti premi, quello di grattacielo più bello del mondo nel 2015). Figlio di Renato, neurologo, e di Cini, architetto e designer, fratello di Tito (a capo dell'Inps), già direttore di Domus e Abitare, un passato (breve, turbolento) di assessore alla Cultura nella giunta arancione di Giuliano Pisapia, da sempre appassionato di politica, Stefano Boeri è da qualche mese anche direttore del Future City Lab della Tongji University di Shanghai, una delle università più prestigiose della Cina.
Professor Boeri, che cosa si progetta in un dipartimento dedicato alle città del futuro?
«Si lavora su tre tipi di futuro: quello tra cento anni, fatto di visioni, quello tra trent'anni, che richiede una progettazione a medio-lungo termine, e quello delle cose da fare subito».
Partiamo dalle visioni.
«Da studi scientifici sappiamo che l'innalzamento degli oceani sommergerà una parte di Shanghai: stiamo ipotizzando una città subacquea. E anche una colonia di Shanghai su Marte. Bizzarro? Lo so».
E il futuro prossimo?
«È quello che si gioca entro tre decenni: ci stiamo concentrando sulla reintroduzione del verde urbano in Cina, un continente rimasto senza boschi. La questione delle foreste è il tema che mi sta più a cuore: è quello su cui si gioca il futuro di noi tutti, non solo a Shanghai».
Perché?
«Abbiamo due grandi questioni che, come architetti, non possiamo eludere: il cambiamento climatico e le diseguaglianze sociali. Mentre parliamo di smart cities, il 33% della popolazione mondiale vive in slum, senza luce o acqua corrente. Un grande progetto planetario di forestazione urbana può conciliare attenzione all'ambiente e adeguato sviluppo».
In che modo?
«Guardiamo le cose da una prospettiva più ampia. Il 70% delle emissioni di Co2 è prodotto da città, le foreste sono in grado di assorbire il 45% di queste emissioni: portando i boschi verticali nelle metropoli, là tra le fila nemiche, miglioreremmo la qualità dell'aria, fermeremmo lo sviluppo orizzontale delle periferie, daremmo anche slancio all'economia».
Ricetta valida anche per l'Italia?
«Sì. Il nostro Paese vive un paradosso: sono aumentate le zone abbandonate dall'uomo, è sorta la foresta spontanea e abbiamo perso il controllo sul paesaggio. Nel frattempo, sono cresciute le città. La vera sfida dei prossimi trenta-quarant'anni è risolvere questo paradosso. Ci vorrebbe un ministero del legno».
È una battuta?
«Non troppo. La produzione di legno non è antagonista alla questione della deforestazione: il bosco si cura anche con il taglio, che aumenta la biodiversità e rende più forti le foreste. Il Trentino lo sa bene. Se in questo Paese così fragile avessimo più distretti del legno - servirebbero ad esempio in tutto l'Appennino - si creerebbe una filiera che, con l'adeguato taglio delle foreste, darebbe lavoro ad aziende di prefabbricazione per prodotti utili a edilizia e arredamento. Il legno è poi materiale elastico, ottimo per resistere al sisma: in Giappone è molto usato».
Da architetto, dopo i terribili terremoti in Umbria e in Centro Italia, che cosa ha pensato?
«Almeno quattro milioni di case in Italia, fatte tra gli anni Cinquanta e Settanta, versano in un degrado tale che il costo della loro messa in sicurezza è superiore alla demolizione. Va facilitata dal governo la sostituzione edilizia».
Meglio demolire tutto, dunque?
«La scelta coraggiosa è mettere in sicurezza e ricostruire com'erano i monumenti e gli spazi pubblici importanti, e poi sperimentare il nuovo. Il terremoto cancella storie di secoli, è irreversibile, non si ritorna indietro: questo va detto con chiarezza. Tuttavia, apre alla prospettiva di costruire meglio, non solo come e dove era stato fatto in precedenza».
Il suo studio è impegnato ad Amatrice: come procedono i lavori?
«Stiamo costruendo una mensa scolastica che, nelle ore di chiusura della scuola, sarà spazio di incontro e si affaccerà su una piazza dove sorgeranno nove ristoranti, che daranno lavoro a un centinaio di persone. Amatrice rinascerà dalla ristorazione. Stiamo facendo tutto con legno friulano: vorremmo finire la mensa entro Natale. Entro Pasqua sarà pronta la piazza: sarebbe bello in primavera far rinascere la città come meta di turismo enogastronomico».
Nel frattempo, operate anche sulla riqualificazione di Tirana: che effetto le fa lavorare al futuro dell'Albania?
«È emozionante. Se Tirana oggi è una metropoli nonostante i disastri di Hoxha e la costruzione selvaggia, senza catasto, dopo la guerra civile, lo dobbiamo agli italiani: l'impianto della città sopravvive grazie al progetto, fatto dai nostri architetti negli anni Trenta, di un grande viale su cui si affacciano monumenti. Stiamo studiando come valorizzarlo con il verde».
A proposito di verde: Vertical Forest, boschi verticali, crescono ormai ovunque.
«Non c'è il copyright. Sono felice se il Bosco Verticale è ripreso da altri. Purché sia fatto bene: in Cina abbiamo visto persino grattacieli con piante in plastica».
Che cosa risponde a chi dice che, considerati i costi degli appartamenti, il suo è un progetto elitario?
«All'inizio le case non costavano così tanto: 6/7mila euro al mq è una cifra ragionevole per quella zona di Milano. Il successo e i premi ne hanno fatto crescere il valore. Come studio questo ci ha permesso di investire nella ricerca: ora vogliamo esportare il modello in varie forme edilizie. A Shijiazhuang, metropoli fra le più inquinate della Cina, stiamo ideando una Forest city di cento palazzi, alcuni dei quali a edilizia economica-convenzionata».
La città nuova di Sant'Elia, con i suoi edifici conturbanti, era visionaria: la nostra città nuova sarà verde e verticale?
«Sant'Elia pensava a grandi organismi multifunzionali, infrastrutture, gigantesche macchine per abitare. Più che un visionario, è stato un anticipatore.
Oggi noi architetti siamo obbligati a pensare a città sì dense, dunque verticali per motivi economici e di spazio, ma anche a tener conto del loro impatto ecologico. La Città Foresta col suo verde verticale coniuga ambiente e sviluppo. La sfida per noi resta però sempre quella di misurarci con l'imprevedibilità degli esiti e degli usi di ciò che realizziamo».
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