Il nemico deve arrendersi: ha vinto Bonolis. Ancora prima di finire il lavoro. Chiedergli di rianimare Sanremo era come chiedergli di riportare il dinosauro allo zoo: c'è riuscito. È andato a riprendersi il grande fossile dal Mesozoico in cui era ormai sepolto e l'ha rimesso in piedi, agile come un grillo. Adesso ci si può attaccare a tutto, per negare l'evidenza: anche i pugili sfigurati dall'avversario, giù dal ring, dopo la cura, riescono a trovarci qualcosa da recriminare, per la serie «le ho prese, ma quante ne ho date». Però sono solo chiacchiere patetiche: risultati alla mano, il miracolo è compiuto. Bonolis ha vinto, Bonolis ha resuscitato il dinosauro.
L'entità della vittoria non si misura soltanto in dati d'ascolto. Il capolavoro più eclatante lo si tocca con mano nei bar e negli uffici, la mattina dopo: la gente ammette di aver visto Sanremo. Forza, ammettiamolo: da quanti anni nessuno diceva più in pubblico di vedere Sanremo? Come ai tempi della Dc non s'incontrava in giro un cane che riconoscesse tranquillamente d'aver votato Dc, così non si trovava un italiano capace di dire apertamente e lealmente sì, ho visto Sanremo. Guardiamoci attorno, in questi giorni: tutti quanti raccontano serenamente, senza farfugliare e senza abbassare la voce, di aver ascoltato Mina e di aver visto Benigni, di aver riso per l'improponibile valletta della prima serata o di essersi sorpresi per come canta Laurenti. Al limite, c'è ancora qualcuno che minimizza e mimetizza, del genere «non ho visto tutto, soltanto qualcosa facendo zapping», ma siamo ormai nel campo delle minoranze snob. In realtà, senza se e senza ma, l'Italia è tornata al Festival. E la spiegazione, indiscutibilmente, ha un nome solo: Bonolis.
La discussione, caso mai, può riguardare soltanto come e perché il miracolo sia riuscito. Appunto: qual è il segreto di quest'uomo? Non serve la scienza della comunicazione per la spiegazione più immediata ed evidente: Bonolis sa fare il suo mestiere. È vero che in Italia questo fatto stupisce sempre un po', perché di solito vediamo gente in certi posti e ci chiediamo subito chi ce l'abbia messa, perché stia lì, escludendo tassativamente l'ipotesi che ci stia perché «sa fare il suo mestiere». Bonolis no: Bonolis è giustamente al posto giusto. Di tutti i conduttori nostri, è certamente quello con maggiore personalità, maggiore senso dell'ironia, maggiore fiuto del gol. Ha anche indiscutibilmente una certa cultura. Se poi mettesse la punteggiatura quando parla, sarebbe quasi perfetto.
Poi ci sta tutto: l'astuta ruffianaggine di riproporre continuamente la cifra comica che piace tanto a noi, impersonata dai Totò e dai Sordi. Ci sta il collaudato schema di gioco che prevede un Gattuso accanto a un Kakà, dove Laurenti fa Gattuso perché le doti tecniche di Kakà risaltino ancora meglio, senza star qui a dire chi sia il Kakà di Sanremo. Ci sta questo continuo lisciare il pelo alla parte più buona e più umana di noi, perché nessuno si senta troppo in colpa per eccesso di leggerezza, di evasione, di amenità: da qui la farcitura del panino con robuste dosi di solidarietà e di impegno, a partire dai bambini africani per arrivare al collegamento in diretta con l'alto papavero dell'Onu (quella, anche se è umorismo involontario, resta la gag più spassosa delle prime serate: annichilito pure Benigni).
Pazienza, chi se ne importa, se in tutto questo manca la musica. O se resta miseramente confinata sullo sfondo, con la sua pochezza. Ormai lo sappiamo: la musica italiana stenta a sfondare in tv come conferma anche la sospensione del Festivalbar, nonostante i grossi nomi. A Sanremo nessuno si sogna più di pretendere la migliore musica italiana: non a caso, la formula riveduta e corretta di Ciao Darwin, con due conduttori che fanno i cretini e la gara che fa da semplice pretesto, sta riuscendo tanto bene. Bonolis ci dà quello che in fondo vogliamo: un po' di tutto, secondo il gusto medio, presentato al ritmo di gag abbastanza intelligenti, capaci comunque di togliere all'ambiente quel plumbeo e anacronistico senso di messa cantata, ostinatamente riproposto per esempio dal baudismo.
Organizzata così, la settimana di Sanremo non mette imbarazzo a nessuno. Ci sta che se la guardi persino qualche giovane, senza provare pena e disgusto per i genitori seduti sul sofà. Però poi bisognerebbe fermarsi qui. Con i complimenti al bravo conduttore Bonolis. Il problema è che neppure lui, per quanto intelligente, autoironico, saggio e disincantato voglia apparire, resiste alla tentazione di andare oltre. Di uscire dal ruolo e di fare un ulteriore passo, verso la pensosa dimensione del guru. Si vede chiaramente: a Bonolis non basta fare bene il proprio mestiere. Come tanti che non hanno letto o hanno dimenticato la lettera di Kipling al figlio - «Se riesci a trattare allo stesso modo quei due impostori che sono il trionfo e la rovina, sei un uomo, figlio mio» -, anche Bonolis considera il successo un piedestallo su cui salire per dispensare verità e per risanare le genti.
Un tizio che lancia una trasmissione dal titolo Il senso della vita evidenzia quanto meno una certa ambizione e una buona autostima. A Sanremo gli bastano i primi dati d'ascolto per rimettersi subito sul pulpito, arrivando tranquillamente a bacchettare pure il Vaticano, rinfacciandogli persino le posizioni etiche sul caso-Eluana: «L'importante, sia che si parli della vita, sia che si parli della canzone, è che si rispetti la decisione degli altri». Parole così grosse e così stizzite soltanto perché l'Osservatore romano non ha gradito il suo Sanremo.
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