Caro Bud Spencer, le pesano i suoi ottant’anni?
«Per niente. Non mi sono accorto di esserci arrivato».
Sono più gli anni o i chili?
«I chili, i chili. Anche se sono sceso da 150 a 125».
Col cinema però è fermo dal film di Olmi, «Cantando dietro i paraventi», che è di cinque anni fa...
«Macché fermo, ho appena finito di girare Uccidere è il mio mestiere, una produzione tedesca, dove impersono il maestro di un assassino, completamente cieco».
Una commedia più che un poliziesco, quindi, ma quando lo vedremo in Italia?
«Credo presto, ora stanno facendo il doppiaggio».
Senta, tornando a Olmi, critiche entusiaste e sale mezze vuote...
«È il destino dei film di Olmi, un autore talmente geniale che non ha bisogno del successo delle folle».
Al contrario di Bud Spencer...
«Non esageriamo, non mi ritengo un attore, ma un personaggio molto fortunato, diventato popolare. Attore mi sono sentito per la prima volta proprio con Olmi».
Ma la critica la snobba e premi ne ha presi pochi...
«Pochi in Italia, a parte un premio Charlot nel Salento. Invece all’estero ne ho raccolti molti, da Berlino alla Spagna. A Parigi un’autorevole giornalista del Figaro mi ha commosso con le sue parole».
Come spiega questa disattenzione italiana?
«Mah, forse perché non sono gay, né trans e ho la stessa moglie da cinquant’anni».
Dispiaciuto?
«Un po’ ferito sì, per fortuna non conosco il rancore. Mi rifaccio con i fan sparsi in tutto il mondo, Russia, Arabia Saudita, Australia e Germania, dove hanno inventato magliette con il mio faccione al posto di Che Guevara».
E in Italia?
«Ho ventitré fan club, primo della lista a Verona. Per iscriversi bisogna ripetere davanti al notaio le frasi celebri dei miei film. E quante lettere: 1.500 al mese, mica poche, anche se dimezzate rispetto a qualche anno fa».
Scrivono più a lei o al suo socio, Terence Hill?
«Non saprei. Di sicuro scrivono a me, non alla coppia».
Coppia mitica, che ha girato quanti film?
«Sedici, in quarantadue anni. Un lunghissimo tempo senza mai un litigio».
Tornerete insieme, magari con quel Don Chisciotte, di cui si era tanto parlato?
«Non credo. È una questione di decenza, certe cose non posso più farle. Sono rimasto colpito, non tanto tempo fa, da un bambino, che mi ha squadrato per strada e poi ha detto al padre: “Com’è vecchio”. Terence, che ha dieci anni meno di me, forse sì».
Adesso però ha deciso di fargli concorrenza in tv con una nuova serie gialla, I delitti del cuoco, in onda su Canale 5 in primavera...
«Ma io non sono un prete come Don Matteo, bensì un commissario di polizia in pensione, che ha aperto un ristorante e dà una mano alla polizia. Lo dico subito: niente a che vedere con Nero Wolf né con Maigret. Semmai c’è qualche somiglianza col mio Piedone».
Sarà dura eguagliare il boom di Don Matteo...
«E allora? Sono felice del successo di Terence, se farò ascolti più bassi pazienza».
Anche tra di voi vi chiamate Terence e Bud?
«Ma no, ci sentiamo e ci vediamo di continuo: ciao Mario, ciao Carlo».
A proposito, perché non ha fatto cinema con il suo vero nome, Carlo Pedersoli, tra l’altro già celebre per il nuoto?
«Semplice. Negli anni Sessanta e Settanta c’era la moda esterofila di camuffare l’identità di attori e registi. L’hanno fatto tutti, da Sergio Leone a Franco Nero a Giuliano Gemma».
E come ha scelto il suo?
«Altrettanto semplice. Spencer Tracy era il mio idolo e la Budweiser la mia birra preferita».
Lei però ha cominciato la carriera in piscina?
«Sì, sono stato per dieci anni campione italiano dei cento stile libero... ».
Il primo a scendere sotto il minuto...
«Vero. Nel 1950 con 59 secondi e un decimo. Ma giocavo anche a pallanuoto: centravanti della nazionale, il famoso Settebello, alle Olimpiadi di Helsinki del ’52 e di Melbourne nel ’56. Che beffa: gli azzurri vinsero, senza di me, nel ’48 a Londra e nel ’60 a Roma».
Sport e cinema, due strade lontane...
«Mica tanto. Lo sport mi ha insegnato a restare con i piedi per terra. Quando nuotavo avevo le donne che volevo, i migliori alberghi e via dicendo. Ma un giorno ti svegli e c’è qualcuno che va più forte di te. E non sei più nessuno. Così nel cinema: il pubblico ti può togliere il successo in una notte».
Come ha cominciato col cinema?
«Per caso, anche se mia moglie Maria è figlia di uno dei più grandi produttori, Peppino Amato. Un giorno, era il ’67, il regista Giuseppe Colizzi le chiese: “È sempre grosso come prima? Ho bisogno di uno così per un western”».
Visto e preso, insomma...
«Non proprio. A me domandò: “Sai andare a cavallo? Parli inglese? Hai la barba?” Beccandosi tre no.
Meno male.
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