LA BUFALA DEL «SANT’AGOSTINO»

Insomma, pare che ci sia la didascalia, ma non il quadro. Domenica scorsa la studiosa Silvia Danesi Squarzina, in un articolo ospitato dall’inserto culturale del Sole 24 Ore, annunciava che era venuto alla luce nientemeno che un «nuovo Caravaggio», un ritratto di sant’Agostino proprietà del marchese Vincenzo Giustiniani. Entusiasmo e scetticismo, più il secondo, sono schizzati alle stelle nel mondo dell’arte.
Tuttavia, le ragioni dell’attribuzione paiono essere sempre più deboli a parecchi studiosi che hanno dedicato decenni di indagini all’artista. Tutto è partito da queste parole contenute nella descrizione degli inventari di Vincenzo Giustiniani del 1638: «Un quadro di una mezza figura di S. Agostino dipinto in tela alta palmi 5 e mezzo e largo 4 e mezzo incirca, di mano di Michelangelo da Caravaggio con sua cornice negra». Dopo averle lette, la Squarzina ha ritenuto di poter assegnare a Caravaggio un «Sant’Agostino» rinvenuto in una collezione privata spagnola (si dice che ci sia di mezzo, come proprietario nascosto o come intermediario, il mercante inglese Clovis Whitfield) e ne ha dato notizia.
«Se quello è Caravaggio io sono Gesù Bambino - ci dice lo storico dell’arte Maurizio Marini - È un bel quadro, per carità, ma attribuirlo a Caravaggio, soprattutto a quello intorno al 1600, è impossibile. Troviamo in esso un’organizzazione pittorica che non è quella dell’artista: lo studio, i libri, la mitra vescovile... tutto si discosta dalla concezione formale del Caravaggio, soprattutto quella dell’ultimo decennio. Parliamo di un pittore che ha ritratto San Pietro senza le chiavi, per dire. E pure in questo caso specifico sarebbe rifuggito dagli attributi, perché se stai pregando sai che santo hai davanti. Ulteriori smentite: normalmente Caravaggio fa sempre sfondi bui o con illuminazioni di luce metaforica che non ha niente della luce fisica, così come nel periodo indicato ha dei modelli fisici tra cui non rientra quello ritratto. Piuttosto, questo quadro ricorda Bartolomeo Cavarozzi, detto Bartolomeo dei Crescenzi, famiglia con cui si recò persino in Spagna, il che spiega il legame con i Giustiniani, che a loro volta non erano certo filo-francesi. E che non potevano certo aver finanziato, per esempio, il Caravaggio di San Luigi. Questa attribuzione gronda di dettagli che la smentiscono. Quando cominciai a fare le mie prime indagini su Caravaggio vi erano elenchi delle sue opere lunghi cinquemila pezzi: il fatto che in uno di essi un quadro venga attribuito a lui non giustifica nulla».
Dello stesso parere Nicola Spinosa, già soprintendente del Polo museale di Napoli e curatore dell’ultima mostra su Caravaggio nel 2004, prima a Capodimonte e poi alla National Gallery di Londra. «C’è un errore di metodo - ci dice Spinosa - perché ancora una volta non si è capito che per collegare un documento a un dipinto non si deve solo aver visto il documento, ma anche aver saputo leggere correttamente il dipinto stesso. Soprattutto se il documento è stato redatto anni dopo l’esecuzione del quadro, come questo che è stato steso nel 1638. E ricordo che Caravaggio ha lasciato Roma senza più tornarvi nel 1606 ed è morto nel 1610. Per dire: nello stesso inventario viene riportata un’opera di Caravaggio che invece era di Ribera, il che avrebbe dovuto mettere all’erta la Squarzina sul valore del documento, dal momento che è già titolare di un altro errore: un San Francesco di Ribera attribuito a Caravaggio. Entrando nello specifico fatto d'arte, poi, chiunque conosca Caravaggio sa che non avrebbe mai dipinto Sant’Agostino con alle spalle una biblioteca di libri così ordinata. Non c’è un solo dipinto della sua maturità che si fermi così nel particolare».
Perplessità davanti al dipinto le nutre anche Keith Sciberra, professore di Storia dell’arte all’Università di Malta: «Anche solo a guardarlo in foto il quadro parla da solo e il quadro è sempre più importante di una ricostruzione documentaria. Non è di Caravaggio: non rispetta il suo temperamento, la sua intensità, o anche solo il suo modo di comporre. Non accetto proprio che si dica è un autografo di Caravaggio: rispetto la ricostruzione fatta sui documenti, che vorrei comunque vedere dal vivo insieme al dipinto. In ogni caso, un’analisi che parta dal quadro stesso affossa tutto il resto».
«Le caratteristiche di stile di questo quadro – rincara Ferdinando Bologna, collaboratore di Roberto Longhi e professore emerito di storia dell’arte medievale e moderna presso a Tor Vergata – non hanno nulla a che fare col Caravaggio, che non è mai stato così dolce e melenso. Non bastasse, persino la documentazione è insufficiente: il tardo inventario della collezione di Vincenzo Giustiniani a proposito di Caravaggio fa acqua da tutte le parti. Contiene alcune decine di quadri attribuiti a Caravaggio, di cui solo tre, oggi al museo di Berlino, di attribuzione sicura. Penso che sia stato fatto almeno 30 anni dopo la morte di Caravaggio: da Cavarozzi, Paolini o forse Spadarino».
E infine ridice (o ripercuote) la sua, ma con divertimento, anche Vittorio Sgarbi, intervenuto a proposito su queste pagine l’altro ieri: «Il documento che parla del quadro è del tutto privo di credibilità. Risale a 28 anni dopo la morte di Caravaggio: logico che non può essere chiamato documento riferendolo direttamente al quadro. Poi: l’ambientazione è estranea alla visione di Caravaggio. Ricorda Pier Luigi Pizzi o Mongiardino, ma non è del nostro artista: piuttosto è la scenografia di un arredatore. Terza cosa: quelle mani da manicure di Sant’Agostino... dove sarebbe l’energia, la forza, la crudeltà di Caravaggio?».
Ad ogni modo, il dipinto verrà esposto a Ottawa da domani, alla National Gallery of Canada, e poi a Forth Worth, Texas, al Kimbell Art Museum.

Le sue quotazioni (non dimentichiamo che fa parte di una collezione privata) e lo sbigliettamento alle casse museali verranno tenuti in piedi dalla didascalia sotto il quadro. Sopra, invece, le cose saranno poco chiare. E Caravaggio sorride.

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