Bush sotto attacco per aver sottratto Libby alla prigione

Il presidente non esclude la grazia «in futuro» al braccio destro di Cheney che aveva tradito una 007 E giudici e giornali si scatenano

Bush sotto attacco per aver sottratto Libby alla prigione

da Washington

Applausi e fischi hanno accolto, come prevedibile, la decisione di Bush di salvare dal carcere Lewis «Scooter» Libby, il braccio destro del vicepresidente Cheney condannato a 30 mesi di reclusione per «ostruzione di giustizia» e per aver mentito alla giuria durante le investigazioni per il «caso» di Valerie Plame. Anche se la vicenda è contorta, i suoi dettagli dimenticati dai più e anche se, come ricorda l’editoriale di ieri della Washington Post, «c’erano delle attenuanti». Per esempio che nessuno è stato condannato per il reato su cui i magistrati hanno indagato: «fuga mirata» di segreti di Stato per danneggiare la credibilità di un diplomatico, l’ambasciatore Joseph Wilson che era stato incaricato di raccogliere dati su presunti acquisti di uranio nel Niger da parte di Saddam Hussein (uno dei motivi addotti per l’invasione nell’Irak) e aveva riferito che si trattava di voci false. Qualcuno rese noto, in quella occasione, la professione della moglie di Wilson, Valerie Plame, che era un’agente segreto della Cia. L’autore dell’«indiscrezione» confessò più tardi: era il sottosegretario agli Esteri Richard Armitage. Libby è stato condannato per aver «nascosto la verità» agli investigatori. A due anni e mezzo che, ha detto Bush, sono «una sentenza eccessiva». Il presidente (che «per il futuro» non ha escluso la grazia) non ha prosciolto Libby, ma ha commutato la sua pena detentiva: con urgenza perché altrimenti il braccio destro di Cheney sarebbe dovuto entrare in carcere fra pochi giorni. La decisione della Casa Bianca era stata invocata da alcuni attivisti nel campo «neoconservatore», ma è venuta egualmente a sorpresa, anche perché Bush ha omesso di chiedere, come di regola si fa per un procedimento di amnistia, il parere del ministero della Giustizia.
Di qui la polemica. Wilson e consorte, nel preannunciare una causa civile, hanno duramente attaccato Bush: «Con questo gesto il presidente ha assicurato che non ci siano più moventi per dire la verità. Sollevando così il sospetto che egli stesso sia parte della ostruzione di giustizia». Quasi egualmente indignato il giudice che ha emesso la sentenza, Patrick Fitzgerald (che fra l’altro è repubblicano e fu nominato da Bush): «La condanna non è eccessiva: è nella norma per questo tipo di reato. Contestarla equivale a dire che non tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. Se l’autore della “fuga” non è stato condannato, è principalmente perché Libby ha sistematicamente mentito». Giudizio contestato da diversi esponenti repubblicani, in particolare dal senatore Fred Thompson, uno dei candidati più forti nella corsa alla Casa Bianca dell’anno prossimo: «Libby è un patriota che ha fatto tanto per il nostro Paese». Accanto a Thompson si schiera un quotidiano, il New York Post, che chiede adesso a Bush di passare all’amnistia completa. Una voce quasi isolata. Il New York Times si scaglia contro Bush: «Ci aveva promesso moralità e rispetto per la legge ma, dovendo scegliere, ha protetto i segreti e gli interessi dei suoi collaboratori, mettendosi al di sopra della legge». Opinione forse scontata da un quotidiano «liberale».

Lo è meno quella di un foglio conservatore come il Wall Street Journal, che ora accusa Bush di aver «dato un esempio di mancanza di coraggio, a conclusione di una vicenda in cui la sua amministrazione ha dimostrato insufficienza». Il Wall Street Journal avrebbe preferito un’amnistia, ma Bush deve aver tenuto anche conto dell’opinione pubblica. In un recente sondaggio 69 americani su 100 si erano detti contrari al «perdono» e solo 18 favorevoli.

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