Cagli, l’esploratore degli stili che s’innamorò del mito

Era nipote di Massimo Bontempelli, dal quale apprese la lezione del realismo magico

Alla Quadriennale di Roma del 1935 un giovane dava scandalo. Si chiamava Corrado Cagli e aveva solo venticinque anni. (Il detto «Largo ai giovani», coniato dal futurismo, era stato fatto proprio dal fascismo). Le sue opere, collocate nella Sala della Rotonda allestita da Aschieri, erano quattro monumentali encausti (opere realizzate con colori sciolti nella cera e riscaldati al momento di dipingere), che celebravano la bonifica delle Paludi Pontine. Nonostante qualche acerbità nei particolari, il ciclo sprigionava un sottile fascino per l’atmosfera straniata e smemorante in cui era immerso.
Cagli l’aveva intitolato Cronache del tempo, ma in realtà il tempo era sospeso. Il risanamento delle paludi, la costruzione delle città nuove sembravano una leggenda antichissima. Come in un teatro immobile le azioni del regime, deposta ogni propaganda ideologica, erano narrate con le cadenze popolaresche e colte, immediate e misteriose, del mito. E di miti Cagli si intendeva, avendone compreso il concetto e il valore grazie a suo zio Massimo Bontempelli, teorico del realismo magico e innamorato appunto della suggestione narrativa e artistica del mito.
Su che cosa i critici avevano da ridire? Prima di tutto sulle tante reminiscenze di quei pannelli, da Piero della Francesca a Paolo Uccello, dal Bellini al Greco. «Prende da chi gli capita gesti, figure e idee, con l’aria di dire: non se ne accorgeranno» protestava qualcuno. Ma, più di tutto, fu criticata proprio la dimensione mitica delle Cronache, accusate di velleitarismo ed ermetismo. «I miti - scriveva Ugo Ojetti - non si creano così, a giorno fisso, per volontà dei pittori». Un’altra bordata di attacchi si appuntava sul colore usato. Piaceva poco la sua tavolozza scaldata da una luce introversa, il suo tonalismo intessuto di ocra, gialli e verdi. Qualcuno parlò addirittura di «una pittura biliare, fatta cogli interiori dei polli». E bile, itterizia, chimismi falliti erano le metafore più ricorrenti per la tavolozza del giovane artista, protagonista già a quella data della Scuola Romana.
Parliamo di Corrado Cagli in occasione della solida mostra che gli dedica la città di Ancona (a cura di Fabio Benzi, Mole Vanvitelliana, fino al 4 giugno, catalogo Skira). Si tratta di una ricostruzione approfondita di tutta la sua attività: dagli esordi, in cui tra l’altro è uno dei teorici, con Sironi, della pittura murale, fino alle ultime opere, realizzate a pochi anni dalla morte, che lo coglie a Roma nel 1976, a sessantasei anni.


Cagli è stato un pittore eclettico, non solo perché ha esplorato tanti stili, dal classicismo visionario dei primi anni Trenta al realismo e all’espressionismo della fine del decennio; dal neocubismo del dopoguerra all’astrattismo onirico e segnico della sua pittura tarda. È stato eclettico anche nelle tecniche e nei generi in cui si è cimentato praticando, oltre alla pittura, la ceramica, la scultura, l’arazzo e la scenografia. In una ricerca incessante.

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