Cala il sipario su Violante travolto dalle correnti ds

Nove dicasteri alla Quercia, ma nessuno per l’ex toga. L’ultima paradossale motivazione: «C’erano già troppi piemontesi nell’esecutivo». Fassino: «È un’importante risorsa per il partito...»

Luca Telese

da Roma

Lui, molto scottato, è chiuso in un riserbo stretto, blindato e legittimo sulla sua storia. Mentre la cosa meravigliosa nelle «veline botteghine» del giorno dopo, sono le parole consegnate dagli uomini di Piero Fassino all’Ansa: «Violante - dice un anonimo della segreteria - è una importante risorsa per i Ds». Fantastico, davvero: ormai dentro la Quercia tutti sanno che quando ti dicono che sei «una risorsa», e magari «importante», occorre fare scongiuri e toccar ferro, e quando qualcuno parla di «gesto nobile e generoso» vuol dire che un uccello padulo vola verso il noto bersaglio ed è pronto a trafiggerti dove sai. Il caso di Luciano Violante, la «clamorosa esclusione» non è che l’ulteriore conferma dello stato di cattiva salute che attraversa i Ds, il paradosso di una vittoria che si declina come una sconfitta, che porta potere ma anche rogne, il disagio di una sinistra che va al governo con il maldipancia e il sopracciglio aggrottato: l’apparato propagandistico parla di una presunta liberazione dalle lottizzazioni della destra ma la pratica correntistica ieri ha fatto esclamare, persino a uno che ne ha viste tante come Massimiliano Cencelli: «Altro che il mio manuale! Questi ne han fatte di tutti i colori: si sono spartiti pure le maniche della camicia!».
Cencelli è uno al di sopra di ogni sospetto: uomo della Margherita, amicissimo di Nicola Mancino, assolutamente disinteressato: osserva le cose della politica con passione e ironia, con la sapienza di uno che il manuale del potere lo ha messo nero su bianco. E ha ragione. Nessuno poteva immaginare che uno come Luciano Violante potesse cadere vittima da un cortocircuito di lottizzazione incrociata: nove poltrone ai Ds, ma anche (e soprattutto) quattro poltrone da ministro «dalemiane» (D’Alema, Turco, Bersani, Pollastrini), una «dalemian-bassoliniana» (Niccolais), una «veltroniana» (Melandri) una «del Correntone» (Mussi) e solo due più o meno «fassiniane» (Chiti e Damiano). Oppure: «Troppi piemontesi al governo», per via della presenza simultanea della stessa Turco, di Damiano del rifondarolo Paolo Ferrero e di Emma Bonino (qualcuno si è scomodato persino per ricordare che anche Giuliano Amato è «torinese», con una collocazione anagrafica che fa pensare al nonno italiano di Cafù ed altre amenità già viste nel calcio). Insomma: ormai anche Violante non sarebbe più Violante ma, tutt’al più, un «dalemiano piemontese». C’è in questo piccolo imbarbarimento il riflesso della guerra sotterranea e feroce che dal killeraggio di D’Alema alla presidenza della Camera, all’esclusione di Piero Fassino dalla delegazione di governo (altro gesto «nobile e generoso», stavolta secondo il lider Maximo) ha ormai stabilito una sorta di separazione dei campi: al governo ci stanno gli amici del presidente, al partito quelli del segretario. Se si esclude l’enclave fassinina di Chiti e di Damiano, insomma, si ripropone una divisione ottocentesca che ricorda il partito socialista ai tempi di Mussolini o di Bissolati. Solo che lì, almeno, un frammento di identità ancora albergava: e pare nobiissima la distinzione fra «massimalisti» e «riformisti», nei giorni in cui le etichette di appartenenza sono pure declinazioni onomastiche. A parole sia Fassino che D’Alema sono per il Partito democratico, a parole sono tutti e due riformisti, ulivisti, e prodiani, ci mancherebbe altro.
E dunque non è casuale che il crepuscolo del «violantismo» segni la fine dell’ultimo suffisso che evocava qualcosa di più di un cognome: ti spiegano che questo governo retto dai voti di sei senatori a vita e alla ricerca di maggioranze «a contratto» ha bisogno di essere il più possibile indistinto, che Giuliano Pisapia sia stato segato dalla Giustizia perché «troppo avvocato», e che Violante oggi, sembrasse «troppo magistrato». Sarà forse esagerato, ma è evidente che essere contemporaneamente «dalemiano», «piemontese» e «magistrato» di questi tempi è davvero troppo. Avrà contato qualcosa anche il sarto giapponese, che da sempre dissimula le sue forme sotto doppiopetti generosi e ben tagliati? Ora per Violante si cerca un «premio di consolazione»: chi parla di una promozione al Csm, chi di una presidenza di commissione alla Camera (Affari Costituzionali) chi per lui immagina la Corte Costituzionale. Piero Fassino, sempre leggendario quando cerca spiegazioni razionali ad eventi catastrofici che riguardano il suo partito, ha detto a Primo Piano: «Ho fatto una scelta consapevole. Ci attendevano due sfide. Una, il governo, l’altra sostenere la maggioranza continuando il processo che porta al Partito democratico e riformista. Occorreva dislocare le energie sui due fronti». Un tempo si chiamava «trombatura», oggi si può anche dire «dislocazione», suona meglio.


Così, alla fine di questo giro di valzer, scopri che, di «dislocamento» in «dislocamento», i Ds hanno dislocato l’ex presidente della Camera il presidente e il segretario, tutti approdati, ma dove non volevano. Sarà vero che il potere logora chi non ce l’ha, come diceva Andreotti. Ma forse - come prova il caso Violante - logora anche chi non lo sa gestire.

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