Addio a D'Amico, il golden boy laziale sempre controcorrente

Malato da anni, vinse lo scudetto nel 1974. Il suo unico cruccio fu la Nazionale. Tocco di palla sublime e visione di gioco. Disse "no" alla Roma di Viola

Addio a D'Amico, il golden boy laziale sempre controcorrente
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Sembra proprio una carneficina. Un altro pezzo pregiato dell`indimenticabile Lazio con lo scudetto sul petto del 1974 si è arreso ieri al male bastardo. Questa volta è toccato a Vincenzo D`Amico, 68 anni (Latina 5 novembre 1954 la data di nascita) il numero 11 di quel magnifico gruppo capace di diventare squadra simbolo della metà anni settanta, a colpi di pistolettate, prodezze balistiche, litigi clamorosi e risultati sorprendenti. Erano tutti governati da Tommaso Maestrelli, l`allenatore capace di allestire il team tricolore al culmine di una cavalcata prodigiosa, partendo dalla serie B prima di festeggiare, snodo struggente della sua carriera, lo scudetto piegando la resistenza del suo Foggia (1 a 0, rigore di Chinaglia, all`Olimpico).

D`Amico è stato il tocco di classe purissima di quella Lazio, coltivato come un fiore unico nel giardino di Tor di Quinto. Se Frustalupi, il regista, era il genio geometrico, lui, Vincenzo, era la sregolatezza più autentica, capace d`inventare dal nulla giocate complicate o di servire gli assist più semplici per i piedi di Giorgio Chinaglia. La Lazio è stata qualcosa più di una comunità, una squadra per lui. Debuttò 18enne contro il Modena in serie B e per 16 anni ne indossò la maglia nella buona e nella cattiva sorte. Da tempo si era ammalato di tumore e nel maggio scorso aveva deciso di rendere pubblico il suo stato di salute. «Mi dicono che i malati oncologici tirano fuori forze insospettate. Io ci sto provando» fu il suo post che raccolse migliaia di like e di segnalazioni.

Tristissimo è l`elenco dei componenti di quella Lazio persi per strada: da Maestrelli che ne fu l`inimitabile precettore fino a Pino Wilson, il capitano "caduto" nel marzo del 2022 passando attraverso Pulici e Re Cecconi, Frustalupi e Martini, Chinaglia simbolo gagliardo e provocatore di quelle stagioni calcistiche patite dai romanisti, senza dimenticare Bob Lovati, il vice di Tommaso e il medico storico, Renato Ziaco. Dino Viola, presidente a sua volta dello scudetto di Falcao e Liedholm, tentò un paio di volte di trascinare D`Amico in giallorosso. «A Presidè, io so della Lazio» rispose Vincenzo che chiuse la carriera con un passaggio quasi anonimo al Torino e uno alla Ternana dopo una vita in biancoazzurro, con 336 presenze, 49 gol, e il ricordo di tante mattane. Una su tutte: per operarsi di menisco al ginocchio, venne ricoverato a Pavia dal prof. Boni in un freddo febbraio. Il cronista che andò a intervistarlo lo trovò che palleggiava nella stanza d`ospedale con un salsicciotto para-spifferi. «Io mi alleno sempre» raccontò ironizzando sulla narrazione che lo voleva poco incline agli allenamenti. Da opinionista, ha conservato le stesse caratteristiche: mai banale, sempre pungente, battuta al vetriolo pronta.

Rari i rimpianti. Uno solo fu il suo cruccio, il rapporto tormentato con la Nazionale, all`epoca guidata da Enzo Bearzot. È vero: la concorrenza, nel suo ruolo di musa degli attaccanti, era gigantesca, Franco Causio e Claudio Sala, tanto per citare i beniamini dell`epoca.

D`Amico ebbe una sola convocazione, prima di giocare con il Lussemburgo, e non venne mai utilizzato. Fumantino come era, qualche giorno dopo, attaccò frontalmente Bearzot che lo cancellò definitivamente dalla sua lista.

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