Lo stadio Al Bayt di Al Khor come il Soccer City Stadium di Johannesburg oppure come, andando più a ritroso, lo stadio nazionale di Seul. Le prime volte di un Mondiale fuori dai continenti “tradizionali” del calcio internazionale, Europa e Sud America, non si scordano mai. E rimangono, a modo loro, nella storia.
Quando domenica verrà dato il fischio di inizio a Qatar-Ecuador ad Al Khor, unica città slegata dal contesto urbano di Doha a ospitare la manifestazione, il mondiale vivrà tante prime volte: è il primo mondiale in medio oriente, primo mondiale in un Paese arabo, primo mondiale in un Paese a maggioranza musulmana. La scelta di andare in Qatar ha destato e desta tante perplessità su vari fronti. Tuttavia è innegabile un fatto: si tratta del primo grande evento in questa particolare regione del mondo. Un elemento di cui, nel lungo termine, occorre tener conto.
Le perplessità legate alla scelta del Qatar
Sono tante le ragioni per ritenere quantomeno discutibile la scelta di designare il Qatar come sede per il mondiale del 2022. E questo al netto delle accuse di corruzione, mai del tutto provate a dir la verità, ruotanti attorno la votazione che il 2 dicembre 2010 porta la coppa del mondo direttamente sul Golfo Persico. Il Qatar vince quel giorno la sfida nel ballottaggio finale contro gli Stati Uniti, “ricompensati” poi anni dopo con l'assegnazione del mondiale del 2026. La votazione decisiva vede Doha trionfare con 14 voti su 22. Tre di questi però sono nel mirino di diversi rapporti per sospetti di corruzione. Una storia mai del tutto chiarita e che porta anni dopo la Fifa a una profonda rivisitazione delle regole per l'assegnazione di una competizione internazionale.
Le vicende legate alla scelta del Qatar non sono comunque diverse da quelle di Germania 2006, con il mondiale già “promesso” da Blatter al Sudafrica improvvisamente poi rientrato in Europa. E da quelle poi di Sudafrica 2010, Paese che prevale anche in questo caso più o meno improvvisamente sul favorito Marocco. Chiacchiere in questi casi animate dalla rivalsa di chi si vede respingere la candidatura, ma anche da un certo fondo di verità, con le inchieste però rimaste arenate in superficie. L'impressione comunque è che gli emissari di Doha in quel dicembre 2010 si muovano esattamente come gli emissari di tutte le altre candidature.
Senza dubbio però, Qatar 2022 da subito smuove critiche e perplessità. Il mondiale va a un Paese dove il rispetto dei diritti umani è una materia ancora tutta da sviluppare. Nel piccolo emirato affacciato sul Golfo vige la Sharia, la monarchia al potere esercita un controllo assoluto e si ispira all'ideologia wahhabita dell'Islam sunnita. Quella cioè tra le più rigide che esistano. I diritti delle minoranze e delle donne non sono temi in cima all'agenda politica di un Paese la cui principale fonte di reddito è data dall'immensa disponibilità di giacimenti di petrolio e soprattutto di gas.
Poi ci sono perplessità legate alla logistica del mondiale. Il Qatar è grande poco più dell'Abruzzo e ha una sola città, la capitale Doha, destinata a diventare sede di tutte le gare. È dal 1930, anno della prima edizione della competizione (ospitata a Montevideo), che un mondiale non si gioca in una sola città. Due stadi sono previsti all'interno della municipalità di Doha, altri cinque nelle cittadine limitrofe, tra cui quella di Losail dove viene costruito l'impianto designato a ospitare la finale. Solo lo stadio di Al Khor è fuori dalla cinta urbana della capitale, ma si parla pur sempre di una cittadina distante non più di 100 km dal centro di Doha.
Le dimensioni ridotte del Paese aprono a problemi legati alla gestione e al movimento della grande ressa di tifosi previsti, oltre che degli stessi calciatori con annessi staff e gruppi di collaboratori molto numerosi. È evidente sin da subito che il Qatar è chiamato a uno sforzo che con le sue sole forze difficilmente può sostenere. Circostanza che richiama a un altro problema, quello dei lavoratori. I cittadini qatarioti sono appena 300.000, la restante fetta della popolazione da poco meno di 2.500.000 abitanti è composta da lavoratori stranieri. Sono proprio loro a dover garantire al Paese arabo la buona riuscita della grande mole di lavoro richiesta per portare a termine la coppa del mondo. Questo apre la strada a un'altra perplessità: le condizioni degli operai nelle decine di cantieri aperti dopo la designazione. In una monarchia assoluta che non si cura molto dei diritti civili, c'è in origine ben poco da aspettarsi sul fronte dei diritti dei lavoratori stranieri arrivati in Qatar solo per racimolare qualche soldo da spedire alle famiglie lontane.
Infine da non dimenticare il discorso legato al clima. Il Paese è in gran parte desertico e in estate qui è impossibile giocare. Il conseguente spostamento del torneo in inverno incide sul calendario dei principali campionati e rompe una “sacra” tradizione del calcio legata al rito di celebrare il mondiale nel pieno della bella stagione.
L'importanza di puntare i riflettori sul medio oriente
Eppure, al netto delle tante perplessità, non mancano anche altri tipi di spunti. Si tratta infatti pur sempre, come detto, del primo mondiale in medio oriente. Non è quindi solo il mondiale del Qatar, ma anche dell'intera regione. Un po' come lo è stato Sudafrica 2010 per l'intera Africa. In quell'anno, nella cerimonia di apertura celebrata a Johannesburg, il motto è “This Time For Africa” ed è un intero continente a riporre in questa frase le proprie speranze.
Il medio oriente per la prima volta ha la totale ribalta dei riflettori. E non per guerre o crisi politiche, bensì per un evento di grande risonanza internazionale. Da un lato è vero che le petromonarchie negli anni appaiono impegnate nell'organizzazione di altre competizioni sportive. Gran premi di Formula Uno e di motociclismo, così come tornei di tennis e ciclismo, oramai sono in pianta stabile nei calendari sportivi. Nulla però è paragonabile alla portata di un mondiale di calcio o di una Olimpiade.
Il Qatar e l'intero medio oriente sono “costretti” a stare con i riflettori puntati per un mese intero. E sono in qualche modo costretti ad accogliere per la prima volta il mondo dalle loro parti, interfacciandosi con esso. In poche parole, tenere la luce accesa su una regione particolare e al tempo stesso vitale quale il medio oriente non è un elemento affatto secondario.
La possibile eredità del mondiale
La “pressione” dei riflettori, soprattutto di quelli occidentali, genera qualche frutto. Ad esempio nella condizione dei lavoratori, come detto uno dei temi più discussi da quando la Fifa ha designato il Paese a ospitare i mondiali. Lo scorso anno desta scalpore un'inchiesta del Guardian in cui si parla di 6.500 vittime tra i lavoratori impegnati nella costruzione degli stadi. Doha replica dichiarando che quello è il numero dei morti registrato tra l'intera popolazione straniera residente nel Paese dal 2011 in poi, non tutta impegnata nell'edilizia e in misura ancora minore impegnata nella realizzazione degli impianti. Secondo il governo del Qatar, le vittime nei cantieri per il mondiale sono meno di cento. Tante comunque, senza dubbio.
Tanto che sotto la pressione di numerose organizzazioni internazionali, il governo viene “costretto” a introdurre importanti riforme nel mercato del lavoro. Viene fissato un salario minimo, vengono introdotte misure di tutela giuridica per i lavoratori e soprattutto viene abolita la “kafala”. Ossia un sistema, in uso in tutto il medio oriente, in cui il datore di lavoro prende possesso dei documenti e del passaporto dell'operaio straniero, proibendo quindi a quest'ultimo di lasciare il Paese o di cambiare lavoro senza il suo permesso. Una forma di schiavitù vera e propria, la cui abolizione lascia traccia tanto in Qatar quanto nei Paesi vicini.
Durante la recente visita di Papa Francesco in Bahrein, nella messa celebrata per i lavoratori stranieri presenti nel Paese, il discorso relativo alle condizioni degli operai è uno dei temi più discussi. Anche negli Emirati Arabi Uniti si inizia a parlare di abolizione della kafala e di un generale aggiornamento del quasi inesistente diritto del lavoro. Terminato il mondiale, il rischio è che a fari spenti di questi argomenti, come di quelli relativi ai diritti civili, non si parli più. Ma è anche vero che potrebbe essere proprio questa l'eredità più importante del mondiale in Qatar: l'avvio di una discussione su argomenti tradizionalmente tabù in una delle aree del mondo più controverse e problematiche.
Le regole di un calcio oramai mondiale
“Se qualcuno mi spiega cosa il movimento qatariota possa dare al calcio, posso cambiare idea”. La frase è pronunciata nei giorni scorsi dall'allenatore della Lazio Maurizio Sarri, fortemente contrariato dalla pausa forzata dei campionati per dare spazio al mondiale in Qatar. E mister Sarri probabilmente ha ragione su tutti i fronti: i campionati con lo stop di un mese e mezzo rischiano di essere falsati e il Qatar non è una tradizionale piazza calcistica. Però quest'ultimo pensiero è possibile applicarlo anche per altri tornei iridati.
Anche la Corea del Sud, prima del mondiali organizzati in casa nel 2002, ha fama di squadra materasso nelle competizioni internazionali. Così come il Sudafrica, Paese ospitante del 2010, è più noto per la sua nazionale di rugby che non per quella (molto meno seguita) di calcio. Andando più a ritroso, gli Usa fondano la loro lega professionistica soltanto alla vigilia del mondiale casalingo del 1994. Ogni qualvolta un mondiale esce dai confini europei e sudamericani sembra snaturarsi perché vira verso zone lontane da dove tutto è partito. Ma è anche vero che oramai il calcio è un fenomeno mondiale.
Viene giocato ovunque, viene visto in tutti i continenti e, soprattutto, viene seguito in ogni parte del globo.
E quindi da diverso tempo ciclicamente i tornei più importanti vengono portati al di fuori dei tradizionali templi sportivi. Prima o poi sarebbe toccato all'Africa ospitarli, come accaduto dodici anni fa, prima o poi sarebbe toccato al medio oriente, come adesso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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