Se ne stava per giorni interi appollaiato dietro le vetrine appannate dell’emporio. Quel posto traboccante e colorato riceveva un andirivieni incessante di clienti. I signori Lenzini, che poi erano i suoi genitori, si sfregavano le mani. Erano emigrati poverissimi dall’Italia e, adesso, gli armadi di casa gli usavano per premerci dentro montagne di verdoni. Abbastanza per lasciare il Colorado, che li aveva accolti così benevolmente, per la voglia di rivalsa verso un paese che non aveva mai scucito niente.
Con tutti quei soldi convertiti in lire, i Lenzini, avevano iniziato a comprare terreni nei dintorni di Roma, e a tirar su palazzi. Il piccolo Umberto, cresciuto in mezzo a una selva di gru e calcestruzzo, ancora non poteva saperlo ma quell’eredità avrebbe fatto la sua fortuna. Mentre i suoi si davano all’edilizia, lui si dilettava con il pallone tra i piedi, sbocciando gradualmente. Era un prospetto abile e guizzante, ma non sarebbe stato quello il maggiore dei flirt con il calcio.
Molti anni più tardi, con suo fratello Carlo, si mette in testa di acquistare un club di Serie A. I soldi in cassa ci sono e l’impresa non pare peregrina. A dire il vero, tra i due, quello più convinto è Carlo: dice che la maggior parte del cash la verserà lui, lasciando a Umberto lo scranno da presidente. Solo che un giorno, mentre si trova a bordo di un piroscafo che lo sta conducendo in America, un infarto se lo porta via. D’un tratto Umberto si ritrova da solo con un sogno nato gemello. Così la faccenda sarà più intricata, rimugina, ma non improponibile.
Allora, quando scocca il 1965, diventa il padrone della Lazio. Afferra, a dire il vero, una creatura incandescente: il club si sta avvitando, soverchiato dai debiti. Lo spogliatoio è inciso da una faglia profondissima. Lui però conquista con un savoir faire disorientante: se non gli vai a genio sbatte quei grossi pugni sul tavolo. Se possiedi un carisma tracimante, lo patisce e diventa più mellifluo. A Roma abita in un super attico in Piazza Carpegna: luce in abbondanza e bici necessaria per spostarsi da una stanza all’altra. All’Olimpico, invece, fa il giro del campo con un bicchiere di rosso in mano, ammansendo anche i tifosi più recalcitranti. Sempre con un sorriso sornione, calato sotto un naso ingombrante e, volendo risalire più su, due gigantesche borse violacee sotto gli occhi.
Lenzini ci sa decisamente fare: smazza biglietti omaggio come fossero canditi. Organizza e paga trasferte gloriose, premendo nei bus anche orchestrine che improvvisano fanfare sgangherate. Oltre il gran battage che agita intorno a sé, però, alleva un sogno concreto: vincere il primo scudetto del club. L’incipit racconta l’esatto opposto: al secondo anno di presidenza sprofonda in serie B. Risale prontamente dopo un biennio, ma è soltanto per fare la spola. Di nuovo penosamente risucchiato giù, nel giro di quattro anni.
La svolta giunge ingaggiando il pisano Tommaso Maestrelli, anni 49. Segni particolari: specialista in imprese improbabili, avendo issato il Foggia in A e la Reggina in B. La Lazio torna subito in serie A e si popola di calciatori rampanti. Felice Pulici tra i pali, un giovane D’Amico dal vivaio, l’illuminato Frustalupi nel mezzo e il vigoroso Re Cecconi al suo fianco. Davanti gioca Giorgio Chinaglia, garanzia di grane multiple per le difese altrui. Lenzini ci crede, ma la squadra si vede scivolare via il primato tra le mani all’ultima giornata, giungendo terza.
Si tratta, comunque, del preludio ad un successo imminente. Un anno dopo la Lazio di Lenzini solleva il primo scudetto in assoluto, addomesticando la rincorsa furente del Napoli e intiepidendo le pretese della Juve di Bettega e Zoff. Una squadra, quella, di cristallo. La rosa conta soltanto sedici elementi effettivi, ma per fortuna nessuno si fa male. Lo spogliatoio è diviso in clan. Chinaglia ne è tuttavia il leader indiscusso, tanto a parole quanto nei fatti, dal momento che distribuisce pedate solenni a chi non corre. La zona è il mantra di Maestrelli. La Lazio afferra le briglie del campionato e non le molla più per 17 giornate.
Lenzini, munifico, distribuisce premi e finalmente gongola. La sera dello scudetto porta tutti in un celeberrimo night del centro, per bere e sollazzarsi. Durerà poco. Quello scudetto resta il capolavoro intonso del Presidente, prima che tutto cominci a franare. Nel giro di pochi anni, Umberto deve fare i conti con la morte di Maestrelli e quella, terribile, di Re Cecconi. Poi arriva l’infamia del calcio scommesse e gli arresti che piovono in sequenza, mentre Chinaglia è già volato negli States. Una discesa negli inferi che culmina con la retrocessione d’ufficio in serie B. Quella Lazio magnificamente ricostruita dalle sue macerie, torna a sgretolarsi di nuovo.
Lenzini mollerà la sua creatura dopo un’entropia lunga 15 anni ed un immenso patrimonio dilapidato.
Il sogno romantico del primo scudetto pretende un contrappasso eccessivo. Oltre lo sfacelo che segue la gloria, però, Umberto ha conseguito un altro successo: rimanere, per sempre, "Il Presidente" dei laziali.
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