
Vivono nello stesso palazzo, in via Scipione Capece. Anche volendo è impossibile evitare di incontrarsi. Tazze di caffè bollente e qualche brioche per colazione, anche se l'altro, il numero dieci, preferirebbe magari alimenti in salsa argentina. Escono insieme dopo aver mangiato qualcosa, ché la direzione è la stessa: il campo d'allenamento del Napoli. La stagione è quella del 1985-86. Si dirigono verso la macchina. Prima di entrare Eraldo Pecci fissa per un tempo intenso Diego Armando Maradona e, semplicemente, se ne esce fuori così: "Ma lo sai che io potrei insegnarti a palleggiare di destro?". Diego ride e lo spedisce a quel paese. Sarà un rapporto breve, ma denso. È soltanto uno dei molteplici aneddoti disseminati nella vita di Pecci, che proprio oggi compie 70 anni. Commentatore arguto adesso, centrocampista talentuoso un tempo.
Certo è che se giochi vicino a Diego devi lasciar fare a lui. Però Eraldo c'è sempre, nei momenti che contano. Come quando tocca la fatidica palla proprio a Maradona, per quella punizione impossibile contro la Juve, in un giorno di novembre del 1985, al San Paolo. Il piazzato è da distanza eccessivamente ravvicinata. Non c'è lo spazio giusto affinché la palla possa sormontare la barriera. "Non ci passa, Diego, non ci passa", sussurra Pecci al Pibe de Oro. Pensa che sia troppo persino per uno come lui. "Tranquillo hermano. Pasa, pasa", gli sfodera un sorriso Diego, che infatti segna. Quando Pecci lascia Napoli per tensioni personali, dopo un anno soltanto, Maradona lo prende da parte nello spogliatoio: "Grazie, mi hai insegnato tanto", gli dice. Probabilmente una delle più grandi conquiste in carriera.
Prima c'erano state il Bologna, il Torino e la Fiorentina. In granata conquista uno scudetto storico, il solo e unico dopo l'immane tragedia di Superga. Al Bologna, dove sarebbe tornato dopo la parentesi napoletana, esordisce da minorenne e vince una Coppa Italia. In panchina c'è Pesaola e Pecci prova subito a farsi riconoscere per le sue doti tecniche, ma l'allenatore non è molto persuaso, come racconta Pecci in una recente intervista al Corriere della Sera. "Lei conosce Corso?", gli chiede prima di una partita contro l'Inter. "Certo che lo conosco", replica Eraldo. "Bene, allora lo segua ovunque. Non tocca la palla lui, non tocca la palla lei. Perfetto per noi". Il nostro è ferito nell'orgoglio: "Mister, ma io sono un estroso". E Pesaola, nel suo divertente italo-argentino: "Sì, lei è un estronso". Spogliatoio che deflagra in risate multiple.
Al Bologna, si diceva, esordisce giovanissimo. Ad appena diciott'anni gioca contro la Juve. E anche per quel giorno ormai così distante c'è un aneddoto da sfoderare: arbitra Casarin, e la partita è nervosa. I senatori di entrambe le squadre sono tesi, mandano a quel paese l'arbitro, ma non succede nulla. Eraldo, invece, si becca un giallo alla prima protesta per un calcio di punizione: "Capii che dovevo stare al mio posto", disse più tardi.

A Firenze sfiora di nuovo lo scudetto. Gol annullato a Ciccio Graziani contro il Cagliari e titolo alla Juve, oggetto di eterno risentimento. In quella squadra gioca al fianco di Bertoni, Passarella, Socrates e di molti altri campioni, crescendo ulteriormente. Con Socrates, Pecci intrattiene un bel rapporto d'amicizia fuori dal campo, ma deve imparare a gestire l'imprevedibilità del brasiliano. "Una volta mia moglie aveva la febbre ed era incinta della nostra seconda figlia. Lui mi disse che sarebbe passato da casa, per salutarla. Solo che non si presentava. Alle 10.30 di sera mia moglie voleva andare a dormire. Ci suonò il campanello alle due di notte. Non aveva cenato, quindi facemmo le quattro".
La chiusura della carriera è invece al Vicenza, dove però non colleziona
nemmeno una presenza. Poi, nel corso degli anni, arriverà l'intuizione di convocarlo come opinionista in Rai. L'inizio di un'altra luccicante fase della vita e il palcoscenico ideale per sfoderare i suoi succosi aneddoti.
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