Cambiare la Costituzione? Ecco perché è possibile e giusto farlo

La polemica è subito esplosa violenta. Ma che cosa mai di tanto eclatante ha detto, visto con gli occhiali del costituzionalista, il presidente del Consiglio? Ha dichiarato che «il partito dei giudici vuole sovvertire la sovranità popolare». Non è forse vero? La magistratura non è un potere dello Stato, ma qualcosa di molto meno. È un ordine, come proclama la Costituzione. Dovrebbe essere quella bocca della legge della quale parlava Montesquieu, e invece sovente è di fatto titolare di un indirizzo politico contrario a quello del governo e del Parlamento. Ha poi osservato che la Corte costituzionale non è più un organo di garanzia, ma in Italia è diventato un organo politico. E, a sostegno dell’assunto, Berlusconi ha constatato che ben 11 dei 15 giudici sono di sinistra.
Non si tratta di un’accusa ma di una pura e semplice constatazione. Non basta che gli organi di garanzia siano imparziali, devono anche apparire tali. E qualche dubbio sulla Consulta dopotutto è legittimo. Guardiamo ai fatti. La Corte costituzionale nel 2004 boccia il lodo Schifani per violazione degli articoli 3 e 24 della Costituzione. Cinque anni dopo boccia il lodo Alfano, che aveva recepito i «suggerimenti» della Corte, per violazione non solo del principio di eguaglianza, che nella fattispecie c’entra poco, ma anche perché occorreva una legge costituzionale: cosa alla quale in precedenza non aveva fatto cenno. E allora viene in mente quella commedia di Eduardo De Filippo in cui il protagonista dice che un suo conoscente ha torto. E a chi gli chiede perché, replica: «Perché mi sta antipatico».
Ma Berlusconi non si limita alla pars destruens. No, dopo una via crucis durata un anno e mezzo, speso dal governo tra emergenze e crisi economica, il presidente del Consiglio finalmente annuncia una rivoluzione autenticamente liberale. E non c’è nulla di più liberale della certezza del diritto. Pensate, oggi come oggi ci teniamo ancora sul gobbo una serie infinita di codici di comportamento istituzionali. Abbiamo la Costituzione entrata in vigore l’1 gennaio 1948, figlia del peccato. E cioè dell’abbraccio tra socialcomunisti (quelli di una volta, adoratori di Stalin!) e democristiani di sinistra, anche allora convinti assertori della cultura della resa. Abbiamo la Costituzione di stampo liberaldemocratico uscita dal voto del 18 aprile 1948, che segnò il trionfo di De Gasperi e la sconfitta della sinistra. Abbiamo la Costituzione di fatto, sortita dagli alambicchi partitocratici. E infine abbiamo la Costituzione vivente affermatasi nel 1994 grazie al bipolarismo realizzato da Berlusconi che si oppone a Occhetto.
Ecco che il presidente del Consiglio mette con ragione il dito sulla piaga. A tutt’oggi la Costituzione vivente, non sembri un paradosso, è una delle tante Costituzioni possibili. Con il bel risultato che da un quindicennio siamo sempre a metà del guado: tra una prima Repubblica che si regge ancora in piedi per scommessa e una seconda Repubblica che rischia in ogni momento di essere strangolata nella culla. Il presidente del Consiglio non si nasconde il pericolo di questo stato di cose. Con una transizione che si trascina da così lungo tempo, è possibile tutto e il contrario di tutto. E allora sia benvenuto l’annuncio di Berlusconi: la maggioranza «sta lavorando per cambiare situazione anche attraverso una riforma costituzionale».
Abbiamo bisogno di un governo e di un Parlamento battezzati dal popolo e dotati di poteri meno evanescenti di quelli attuali. Abbiamo bisogno di organi di garanzia che, come la moglie di Cesare, non solo siano ma appaiano anche al di sopra delle parti. E abbiamo bisogno altresì di una ripulitura dei principi fondamentali e dei diritti e doveri dei cittadini contenuti nella prima parte della Costituzione, finora considerata un tabù dai vari riformatori della domenica.

Solo a queste condizioni avremo finalmente la seconda Repubblica dei cittadini. Altrimenti il popolo non sarà che un principe senza scettro e l’incertezza del diritto continuerà a regnare sovrana.
paoloarmaroli@tin.it

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