Duemila uomini in armi che, radunatisi ieri in diverse città del Paese a sostegno del presidente Viktor Yushcenko, stazionano alle porte di Kiev in attesa di ordini non si sa bene da chi e per fare che cosa. Migliaia di attivisti azzurri, fedeli al premier filorusso Viktor Yanukovich, che scorrazzano per la capitale pronti a far valere con ogni mezzo le proprie ragioni. È questa la fotografia, forzatamente sfuocata, di un’Ucraina di nuovo a un passo dal baratro. Travolta da una pericolosa crisi istituzionale che potrebbe questa volta sfociare in un vero e proprio golpe, difficile da immaginare senza strascichi irreversibili, e non nella «gioiosa rivoluzione» dell’inverno di tre anni fa, che trascinò al potere sull’onda della protesta di piazza Maidan gli arancioni di Viktor Yushcenko.
Uno scenario confuso e caotico ben rappresentato dalle espressioni enigmatiche che i due Viktor esibiscono in queste ore, nei colloqui avviati venerdì, interrotti e ripresi ieri in serata, per continuare fino a notte fonda, nel tentativo di giungere a un’intesa pacifica o almeno per salvare le apparenze davanti agli occhi del mondo. L’obbiettivo è in ogni caso quello di trovare un compromesso sulla data delle elezioni parlamentari anticipate, come ha ricordato la portavoce della Presidenza della Repubblica, Larissa Mudrak, secondo cui alla riunione partecipa anche Olexander Moroz, capo della Rada Suprema, il Parlamento ucraino, nonché alleato di Yanukovich.
Da sempre elettoralmente spaccata - l’ovest più nazionalista e le grandi città per gli arancioni di Yushcenko, l’est industrializzato e filo-russo per Yanukovich - l’Ucraina sta vivendo questo nuovo difficile momento con un malessere diffuso tra la gente comune, delusa dai giochi di potere e dalla corruzione ancora ampiamente presente nella macchina del Paese. Ciò che è certo è che la spaccatura istituzionale nel Paese ha già sgretolato il sistema di controllo dell’ordine pubblico. Il ministro degli Interni, Vassili Tsushko, cui venerdì Yushcenko aveva tolto il comando delle truppe avocandolo a sé, ha dichiarato che il suo dicastero «non controlla più le sue forze» e «che i militari che hanno raggiunto o stanno raggiungendo Kiev si sono mobilitati su ordine del comandante Oleksandr Kikhtenko». Kikhtenko, assumendosi la responsabilità dell’allarmante mobilitazione, ha dichiarato: «Come comandante, devo obbedire ora agli ordini del presidente Yushcenko. Ma i miei uomini non applicheranno nessun ordine criminale, e comunque l’invio delle forze è dovuto alla necessità di garantire la sicurezza durante la celebrazione della giornata di Kiev (la festa della capitale che si svolge in questo weekend, ndr)». Resta il fatto che ieri numerosi contingenti provenienti dalle regioni di Poltava, Odessa, Dnepropetrovsk, Donetsk, Nikolaiev e diretti a Kiev sono stati bloccati in vari punti del Paese dalla polizia stradale, mentre il ministro dei Trasporti Nikolai Rudkovski ha vietato che i treni trasportino in queste ore formazioni armate.
La crisi è di fatto cominciata il 2 aprile quando Yushcenko, spinto dalla pasionaria Yulia Timoshenko, sua alleata nella rivoluzione arancione, ha sciolto per decreto la Rada e ha indetto nuove elezioni. Un gesto respinto perché giudicato illegale dalla maggioranza parlamentare. La Corte costituzionale è incaricata di dirimere la crisi, ma i giudici denunciano pressioni e il presidente si dimette più volte, fino a che è lo stesso presidente ucraino a silurare il primo togato, per sostituirlo con un suo uomo. I deputati della maggioranza gridano al golpe. Il 4 maggio Yushcenko e Yanukovich raggiungono un accordo per elezioni anticipate ma l’intesa abortisce l’indomani. La commissione incaricata di decidere data e modalità delle nuove consultazioni si impantana nelle sabbie mobili dei veti incrociati. Giovedì la situazione degenera: Yushcenko silura il procuratore generale Sviatoslav Piskun e lo sostituisce con un suo uomo, Viktor Shemciuk.
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