IL CAPITANO CORAGGIOSO

Arrivarono insieme e i riflettori erano per Avioncito. Ma poi è stato Javier ad entrare nella storia dell’Inter. Indispensabile per ogni tecnico, generoso fuori dal campo. Ama i bambini e ha un sogno: la Champions

La cosa più bella? «Il sorriso di mia figlia». Javier Zanetti non tradisce mai nelle risposte. E così è in campo. È un uomo maglia e famiglia. Mai penserebbe di ribattere: quel gol che ha liberato il mio cuore. Ma l’altra sera, per qualche attimo, deve aver dubitato della risposta. Capitano, mio capitano: San Siro lo ha intonato festoso e felice. Per chi non sapesse cosa significa, vada a rileggersi vita e opere di Javier Zanetti, un ragazzo arrivato dalla zona portuale di Buenos Aires. Non certo un romanziere, nemmeno un poeta, tantomeno un giornalista. Solo un soldatino del calcio che non va fuori delle righe, non ti abbandona mai, ti regala sempre l’ultima speranza. Primo a provarci, ultimo a mollare, primo ad allenarsi, ultimo ad andarsene, primo ad obbedire, ultimo a discutere.
Il gol contro la Roma, quello che probabilmente ha cucito mezzo scudetto sull’amata maglia, è stato il regalo all’Inter centenaria, capolavoro della sua storia con una società bizzosa ed imprevedibile, folle e disarmante. Esattamente il suo contrario. Javier è come Maldini, come Scirea e Picchi o Baresi. Gente a cui credere anche fuor del campo. Ragazzi che parlano, e parlavano, con i silenzi e i fatti.
L’altra sera Zanetti ha baciato la maglia, dedicato il gol alla moglie, gesto impudico per chi non ama esprimere pubblicamente il sentimento. Ma in quel gesto c’era amore, non la solita manfrina da ruffiani pencolanti da una nazione all’altra. La storia, e forse le cattiverie umane, vogliono che Zanetti sia stato l’emblema di una certa Inter: quando si diceva fosse una squadra senza anima, troppo pallida nel mostrar gli attributi. La sua tranquillità, quel non immischiarsi quando un capitano, almeno sul campo, avrebbe dovuto, sono stati croce. Esattamente come oggi è delizia vederlo battersi fino al limite, indomito e indomabile, inesauribile nel correre e giocare, ultimo a dar persa la partita. Quel tiro, quel gol, riassumono tutto.
Straordinaria parabola di vita calcistica: Javier arrivò all’Inter nel 1995. Lo andò a pescare Luis Suarez. Ottavio Bianchi, allora allenatore, aveva chiesto un laterale destro e uno di sinistra (nel senso della fascia). Luis portò a casa Javier Zanetti e Roberto Carlos, suggerito da Jair. Altri chiusero i contratti e nel chiuderli venne incluso anche Sebastian Rambert, detto Avioncito, che oggi fa il vice allenatore di Ramon Diaz, ma allora, aveva appena 21 anni, pareva destinato a un destino da puntero di successo. Le foto della presentazione fecero di Avioncito un’attrazione. Capirete: un attaccante! E di Javier un buon gregario. Ed, invece, Avioncito finì presto in picchiata. Javier prese lentamente quota, fin a diventare capitano al tempo di Lippi e dopo aver dubitato della sua storia nerazzurra una volta sola: deluso dalla stagione con Tardelli e illuso dalle richieste di Real e Barcellona.
Ma furono pochi momenti. Zanetti è un tipo fedele nei secoli, non sa veder altro che la famiglia: Paula, la ragazza che conobbe a 19 anni e sette anni più tardi ha sposato. Oggi lei aspetta un altro figlio, dopo Sol la sua bimba, e non abbandona mai il suo capitano. Ad ogni trasferta, Paula c’è. Con Javier girano il mondo e lavorano al di là del plastificato mondo del pallone. Dice lui: «La peggiore sensazione è vedere bambini che soffrono». Progetta: «Se potessi scegliere, cercherei di lavorare con i bambini». Ed infatti, insieme a Cambiasso, ha ideato una scuola di calcio per i ragazzini. Con Paula, ed altri compagni, sostiene la «Fundacion Pupi» che assiste i bambini emarginati delle periferie argentine. Senza negarsi attività più affaristiche: un ristorante con Guglielminpietro, una palestra fitness insieme a Cordoba. L’aspetto culinario è una delle armi del capitano di lungo corso. Non a caso l’odore preferito è quello della carne alla griglia. E con le grigliate Javier ha smorzato e coagulato gli umori di una squadra sempre al limite della polveriera. La sua grandezza calcistica sta, invece, nel sapersi rendere indispensabile. Più di un allenatore ha pensato di accantonarlo. L’accusa? Porta troppo la palla, difende male. Illusi: il suo cursus honorum è diventato una corona.
Partito come laterale destro, Zanetti si è adattato al ruolo di terzino: destro o sinistro. Anche Mancini è caduto nell’idea di metterlo lentamente da parte. Ed, invece, apprezzandone serietà, impegno e capacità, gli ha regalato la seconda, e forse più convincente, vita calcistica quando lo ha spostato stabilmente a centrocampo. Un affare per tutti. Gli mancava il guizzo da gol. Contro la Roma, Javier si è tolto lo sfizio che vale uno scudetto. Moratti non poteva pescare meglio per mostrare al mondo il capitano di quest’Inter centenaria.

Sicuro che non gli chiederà regali particolari. Ma gli racconterà un sogno: «Voglio vincere la Champions League». E quella non si compra, nè si regala. Ma si conquista con credo, bravura e sudore: la specialità del capitano.

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