Cara Italia, bella e perduta O almeno snobbata dai poeti

Questa antologia composta da uno studioso che fa di professione lo storico e l’editorialista come Ernesto Galli della Loggia (Poesia civile e politica nell’Italia del Novecento, Rizzoli, pagg.396, euro 16) ha il merito, al di là delle scelte e dello stesso gusto estetico che esprime, di interrogarsi sul senso della poesia nella società, e in particolare nella società italiana, in un periodo, che ormai dura da anni, dalla morte di Ungaretti e Montale, di Pasolini e Moravia, di Calvino e Sciascia, in cui del valore intellettuale, storico, spirituale della stessa letteratura sembra che non importi più niente a nessuno.
La scuola, i media, la classe dirigente italiana hanno cancellato l’idea che la poesia è il midollo spinale del linguaggio e della nazione che parla quel linguaggio. Che un autentico popolo non vive senza poesia, e una autentica poesia non vive senza popolo. Leggere questa antologia diventa un modo non banale per ricordarlo, in un’Italia da un lato un po’ ubriacata dai festeggiamenti molto spesso vuoti e retorici del suo centocinquantesimo compleanno e dall’altro percorsa di nuovo dal fantasma della secessione nel Nord .
Proprio perché raggiunge la sua unità politica e statale così tardi, il nostro paese prende la sua fisionomia unica e coerente soltanto attraverso la grandezza della sua tradizione letteraria. L’idea è di Francesco De Sanctis, e giustamente Galli della Loggia la riprende oggi. Siamo italiani perché parliamo la lingua di Dante e di Petrarca, di Ariosto e di Tasso, di Galileo e di Machiavelli. Quando Foscolo scrisse I Sepolcri e iniziò quella poesia civile che tanto avrebbe influito sulla «rivoluzione» del Risorgimento, individuò nelle tombe dei grandi italiani in Santa Croce il luogo da cui muovere per un nuovo riscatto della dignità nazionale. Moravia aveva affermato che la poesia civile in Italia era sempre stata di destra, per poi diventare di sinistra con Pasolini.
Galli della Loggia divide più sottilmente tra una poesia civile che è ancorata all’idea di Italia e una che invece vive la «scomparsa» dell’Italia, intesa come nazione e tradizione. Pascoli, D’Annunzio, Marinetti, Ungaretti, in maniere diversissime, parlano sempre dell’Italia: che può essere quella commovente e modesta degli emigranti in America, quella superba e sfottente della Beffa di Buccari, quella iconoclasta della modernizzazione e della velocità, quella straziata e umanissima dei soldati in trincea nella Prima Guerra Mondiale. Il fascismo, attento alla cultura e all’arte come la democrazia non può essere, finisce però per produrre una poesia di regime, che l’antologia fa bene a riproporre.
Chi ricordava che Cardarelli scrisse versi sulle camicie nere (tra l’altro stilisticamente non male)? Che Soffici, Maccari, Govoni, Betti inneggiarono così allegramente e spudoratamente a Mussolini? Pietro Ingrao non ha consentito -ne ha diritto- la pubblicazione in questa antologia di un suo testo sulla fondazione della città di Littoria mandato ai Prelittoriali del Guf di Roma. Però non sarebbe stata una mascalzonata pubblicarlo: ma una testimonianza preziosa del clima che respirava la più dotata gioventù dell’epoca. Dopo il disastro della Seconda Guerra Mondiale, tranne qualche eccezione, per esempio una bella poesia di un comunista sui generis come Franco Fortini, l’Italia scompare più delle lucciole. Punti di riferimento diventano l’antifascismo, che assume toni quasi metafisici in un poeta tendenzialmente nemico dell’impegno come Montale, la Resistenza, la classe operaia. L’«umile Italia» di Pasolini non è una Nazione, ma un Paese fatto di sensazioni viscerali, di disperati lampeggiamenti vitalistici. E oggi, nel XXI secolo, nel tempo della globalizzazione e della crisi economica sovranazionale, ci potrà essere ancora una poesia civile? Galli della Loggia, lucido ma troppo spesso apocalittico, sembra pensare che con Le ceneri di Gramsci Pasolini chiuda per sempre in un cimitero disperato il ciclo iniziato con I Sepolcri del Foscolo. Ignora Sanguineti, che di Pasolini fu il contraltare, cocciutamente materialista, ideologico e politico sino alla fine. Ignora Mario Luzi, che ha dato voce a un impegno di fortissimo carattere etico e spirituale con tutta una parte della sua opera. E, cosa molto meno grave, ignora anche me, che ho scritto versi sulla democrazia in senso whitmaniano e sul sacrificio del giovane patriota irlandese Bobby Sands, convinto che una nuova poesia civile debba superare gli steccati tra destra e sinistra, tra radicamento all’Italia e oblio dell’Italia.

Civile perché rivendica il primato dello spirito, della creatività umana, della bellezza: italiana perché crede ancora nella energia della nostra lingua e rilegge la nostra grande tradizione in una nuova prospettiva di letteratura globale.

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