Il caso Le ripicche tra Bondi e registi rovinano il cinema

Picche e ripicche. Sembra non ci sia altro linguaggio possibile tra il mondo del cinema e quello della politica, in particolare dei rappresentanti del governo in carica. La storia dell’incomunicabilità, anzi dell’ostilità reciproca tra cineasti e ministri berlusconiani è lastricata di diffidenza, disistima, inimicizia. L’ultima esternazione del ministro Bondi non contribuisce certo a stemperare il clima e a favorire lo spirito collaborativo che gioverebbe a tutti, considerato il fatto che il cinema è anche un’industria che dà lavoro a decine di migliaia di persone. E dunque va detto che, pur tenendo conto del patrocinio economico ministeriale della Mostra di Venezia, l’idea di «mettere becco» nella scelta dei giurati o deriva da una cattiva concezione della libertà d’espressione artistica oppure da pessimi consigli. L’introduzione di giurie di Stato non appartiene certo alla filosofia di un governo che si professa liberale. Se la preoccupazione del ministro è di contare troppo poco nel Cda della Biennale, forse occorreva calibrare meglio le parole. Probabilmente lo svarione di Bondi scaturisce da un giudizio negativo sull’operato di Tarantino, accusato di essere «espressione di una cultura elitaria, relativista e snobistica». Ma a questo punto viene da chiedersi se la bocciatura del presidente di giuria sia causata dal verdetto veneziano su film che il ministro non ha visto o dalla conoscenza della produzione cinematografica e dei gusti del regista Tarantino. In entrambi i casi è una bocciatura non condivisibile.
Tuttavia, ora la questione è un’altra. Purtroppo quest’ultima invettiva del ministro è destinata ad allargare il fossato che già divide politici e cineasti sempre pronti a ringhiarsi contro. Basta ricordare il famigerato «parassiti» scagliato dal ministro per la Funzione pubblica Renato Brunetta contro attori e cineasti di varia fortuna. Sull’altro fronte, a ogni manifestazione pubblica, a ogni adunata, a ogni premio, i famosi Centoautori leggono proclami e chiedono le dimissioni dei ministri in carica. E i contrasti si acuiscono a ogni festival. Bondi disertò quello di Cannes dove fu invitato il faziosissimo Draquila di Sabina Guzzanti. E dove Elio Germano vinse (ex aequo con Javier Bardem) la Palma d’oro come miglior attore, poi provocatoriamente dedicata «all’Italia migliore, non a quella della nostra classe dirigente». A Venezia, dove concorreva Noi credevamo, il film sul Risorgimento diretto da Mario Martone persino realizzato con il contributo dei Beni culturali e del Comitato Italia 150, Bondi è stato atteso invano. E se è difficile frenare il sospetto che nelle scelte del ministro l’appartenenza partitica prevalga sul suo ruolo istituzionale perché tanto tutto il cinema è «de sinistra», d’altro canto le sparate antiberlusconiane dei registi in passerella al Lido disarmano chiunque speri, magari ingenuamente, nella possibilità di un dialogo.
Insomma, c’è molto, moltissimo da lavorare. Qualche passo è stato fatto anche dall’attuale governo con la fissazione dei nuovi criteri di finanziamento ministeriale per le sole opere prime dei registi giovani. Ma molto altro resta da fare, a cominciare dal Palazzo del cinema di Venezia.
Per il resto dev’essere il mercato, interno e internazionale, a promuovere i nostri film. Ma perché ciò accada occorre innescare un circolo virtuoso. Occorre cioè che si cominci a ragionare in termini di sistema, dall’istruzione alla produzione, dal mondo della creatività a quello della distribuzione nelle sale. Perché ciò accada, ancor prima è indispensabile che politici e cineasti depongano elmetto e baionette.

E abbandonino il linguaggio delle picche e ripicche. Nessuno s’illude di sostituirlo con quello dei «cuori» e dei «fiori». Ma almeno con quello dei «quadri» sì. Se non altro per il bene del Paese e di un’industria che in passato ha fatto grande l’Italia nel mondo.

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