Un rinvio a giudizio non si nega a nessuno. In questa Repubblica a sovranità giudiziaria da almeno 15 anni le Procure non fanno mai mancare a un inquisito – soprattutto se di rango - un bel processo. La regola naturalmente ha un’eccezione. Se l’indagato è un politico di sinistra, o meglio diessino, il dibattimento non si fa. Da Occhetto a D’Alema, non c’è inchiesta che abbia lambito i vertici dell’ex partito comunista che si sia conclusa con una discussione di fronte ai giudici. Poteva andare in modo diverso a Vincenzo Visco? Potevamo avere il piacere di ascoltare in un’aula di tribunale le testimonianze di generali e colonnelli della Guardia di Finanza che accusano il viceministro dell’Economia di aver tentato di destituire i vertici delle Fiamme Gialle che indagarono sull’affare Unipol? Ovviamente il piacere – o se preferite – la legittima curiosità è negata agli italiani.
La storia è nota. Il Giornale la rivelò nel maggio scorso, allorché il nostro Gianluigi Nuzzi scoprì che in una testimonianza di fronte all’Avvocato generale dello Stato il comandante della Gdf, Roberto Speciale, aveva denunciato indebite pressioni da parte di Visco affinché sostituisse i militari che si erano interessati alla mancata scalata di Unipol a Bnl, un affare che vede direttamente coinvolti i vertici della Quercia.
Lo scoop del Giornale e la conseguente rivelazione di testimonianze che confermavano il racconto del generale Speciale provocò un terremoto politico. Ma non quello che ci si aspetterebbe in un Paese normale, ossia la cacciata di Visco. No, accadde esattamente il contrario: invece di quella del viceministro cadde la testa del comandante delle Fiamme Gialle.
Poteva dunque finire con un processo e con l’accertamento in un pubblico dibattimento una vicenda che era già stata politicamente liquidata con un arrogante colpo di mano? Certamente no. Le pressioni e la destituzione di Speciale non potevano che essere archiviate ricorrendo a un cavillo: l’atto di Visco fu illegittimo, ma non illecito.
E a proposito d’archivio. Analogo destino avrà la richiesta del gip Clementina Forleo, il giudice che vorrebbe capire il ruolo dei capi diesse nella scalata Unipol. Sempre ieri la giunta per le autorizzazioni a procedere si è dichiarata incompetente a decidere dell’uso delle intercettazioni di Massimo D’Alema. All’epoca delle telefonate in cui il vicepremier esortava Giovanni Consorte a far sognare i Ds, D’Alema era europarlamentare. Ergo – si sono detti i deputati dopo mesi passati alla ricerca di un escamotage che consentisse di rispedire al mittente la richiesta del gip – non tocca a noi dire sì o no all’uso giudiziario di quelle conversazioni, ma a Bruxelles. Respiro di sollievo della Quercia: il peggio per ora è respinto. E molto probabilmente lo sarà per sempre, giacché le carte della Forleo rischiano di frangersi contro le barriere dell’europarlamento. Non avremo dunque il piacere di sentire D’Alema spiegarci cosa intendesse con quell’«attento alle comunicazioni» rivolto a Consorte e nemmeno scopriremo gli interessi legati a certi appoggi all’Unipol.
La Casta – di sinistra – è salva. Fino a quando? Non lo so.
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