La Conferenza episcopale campana ha scritto ai fedeli una lettera di quattro pagine sulla monnezza. E qual è il succo, per così dire, teologico? Il solito «dagli al consumismo», scritto in perfetto ecclesialese: «Quando, come accade in questi giorni, certe emergenze si mostrano in tutta la loro drammaticità non soltanto come effetti di mancate o errate scelte, o di precise responsabilità, ma anche come il frutto dei nostri stili di vita iperconsumistici; quando emerge tragicamente il risultato non soltanto di determinate pratiche sociali inadeguate o di omissioni colpevoli, ma anche di peccati da noi commessi; quando i nostri occhi e i nostri sensi sono costretti a vedere e percepire tutto questo, noi non possiamo, comunque, perdere la speranza e la fiducia».
E che cosa offrono certi pastori al posto della civiltà dellusa, consuma e getta? Il suo esatto contrario: lesaltazione della povertà che ha fatto le fortune del cattocomunismo e le sfortune dellintero Paese. Ci sono montagne di documenti che tuonano contro la ricchezza e che fanno della povertà un mito. Ma nel cristianesimo la povertà è un mezzo per annunciare il Vangelo e non una scelta da imporre al prossimo. Facciamoci una domanda: tolto dallorizzonte Gesù Cristo, perché una persona sana di mente dovrebbe scegliere la povertà invece della ricchezza?
Scrivono i vescovi della Campania (occhio al linguaggio): «Urge una ri-centratura profonda, da parte dei singoli soggetti, delle famiglie e degli organismi sociali». Si auspica un «modo più idoneo di progettare i consumi e la sostenibilità alimentare, la corretta fruizione dei beni paesaggistici e culturali, la differenziazione, lo smaltimento, il trattamento, il ri-uso, la riqualificazione e le possibili, e più avanzate e sicure, soluzioni tecniche per il ciclo dei rifiuti».
E se certi vescovi tornassero a parlare di Gesù Cristo?
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