Questa non è la solita storia dell'italiano emigrato in America con la valigia di cartone, e nemmeno quella di un gruppo di artisti spinto da un critico e protetto dal sistema. Qui si parla di un talento puro e solitario che a metà anni '90 decide di tentare l'avventura a New York visto che il suo Paese gli aveva dato abbastanza. Oggi Maurizio Cattelan ottiene quella glorificazione massima che raramente viene attribuita ai non americani: la mostra personale al Guggenheim Museum. Il successo è strepitoso, ben oltre le più rosee previsioni, nonostante non vi sia nessun lavoro nuovo e nessun effetto choc a trainare la comunicazione. E' quello di Cattelan l'ultimo trionfo del «Made in Italy»? Difficile dirlo, visto che gli artisti di oggi operano nel segno di un linguaggio globale, ma conforta sapere che il nasuto Maurizio tiene a precisare alla sua ultima biografa Catherine Grenier, con cui ha pubblicato il libro «Un salto nel vuoto. La mia via fuori dalle cornici» (Rizzoli): «Resto in primo luogo un italiano, sarebbe difficile prendermi per qualcosa di diverso da uno Spaghetti Man».
Padovano di nascita, residente a Manhattan, milanese di adozione, Cattelan non ha mai reciso il forte cordone che lo tiene legato al capoluogo lombardo. Milano è stata fonte di ispirazione di molti lavori, qui si sono viste alcune tra le installazioni più discusse e provocatorie. Senza contare i suoi migliori amici e gli antichi complici, di quando era solo un talento sbalestrato e genialoide.
Dopo aver vissuto qualche anno a Forlì, Cattelan si trasferisce a Milano nel 1990. Dalla provincia alla metropoli l'impatto è tosto. Capisce subito di non aver bisogno di uno studio in cui realizzare i propri progetti quando li si può tranquillamente delegare ad altri. Ciò che lo attrae è la quantità di contatti e scambi che si possono inscenare in un contesto così attivo e rapido. Né gli importano le comodità e gli agi: i primi tempi dorme in un negozio di mobili accanto a una gioielleria che una notte viene svaligiata. Proprio questo episodio gli ispira la scultura ready-made delle casseforti scassinate, che tanto incuriosisce la critica. A Milano Cattelan conosce Massimo De Carlo, a lungo suo gallerista di riferimento, che ne ha subito intuito la forza e non gli si è mai messo di traverso. L'inizio della collaborazione è addirittura traumatica: l'artista convince il suo mercante a murare l'accesso allo spazio di via Castaldi, mentre ciò che accade all'interno - un orsetto che corre sul filo - è visibile solo da una feritoia. Più avanti, nella nuova galleria di viale Corsica, Cattelan sospende dal soffitto un gigantesco cavallo imbalsamato, quindi appiccica letteralmente al muro lo stesso De Carlo, che sofferente si presta alla performance fin quando un malore non lo porta alle soglie del ricovero in ospedale.
In quegli anni lo si vedeva passeggiare per Brera o andarsene in giro in bicicletta, sempre da solo. Dopo il primo invito alla Biennale di Venezia - era il 1993 - prende la difficile e coraggiosa decisione di lasciare l'Italia per New York, mantenendo però una borsa di vestiti e qualche numero di telefono a prefisso 02 da contattare in caso di bisogno.
Milano gli ha sempre ispirato i lavori migliori, e Cattelan ha ampiamente ricambiato l'energia positiva della città impegnandosi molto. Da «Lullaby», la borsa da vu cumprà contenente le macerie del PAC squassato dall'attentato, che finisce in prima pagina del Corriere della Sera per un articolo di Emilio Tadini, turbato da tanto cinismo, ai bambini impiccati su un albero in piazza XXIV maggio, che causano la reazione indignata di un signore, arrampicatosi fino in cima per toglierli. Lo scandalo più recente è ancora visibile in piazza Affari, impostosi sui maldestri tentativi di censura provvisoria o definitiva.
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