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Cesare Brandi l’arte prima di tutto

Cento anni fa nasceva a Siena il grande critico e storico, fondatore dell’Istituto per il restauro

Correva il lontano 1984. Chiamato a dire la sua sulle correnti post-moderne che andavano predicando un «ritorno alla pittura», Cesare Brandi, ammiccante, rispondeva: «L’intenzione c’è, però non basta: se vuoi “tornare alla pittura” prima devi sapere dove la sta di casa, la pittura». In quella battuta c’era tutto l’uomo col suo pronto carattere di arguto toscano. Ma c’era soprattutto lo stile di un intellettuale che aveva sempre diffidato delle «tendenze» (più o meno d’avanguardia) proprio in nome di una idea aristocratica dell’arte come eccellenza individuale non riducibile alle mutevoli oscillazioni del gusto.
«L’arte è una cosa elitaria - tagliava corto Brandi - e se non la si vuole definire come tale allora non la si guardi neppure». Una simile visione del problema estetico non poteva incontrare, come infatti non incontrò, i favori della politica in genere e tanto più della cultura progressista sempre a caccia di comode ricette funzionali all’«impegno», alla funzione «sociale» dell’arte, eccetera. Del resto, coerente con questa vocazione «impolitica» di studioso liberale e umanista, Cesare Brandi (1906-1988) non si volle mai uomo di potere come invece fu l’amico e sodale (ma sempre concorrente) Giulio Carlo Argan, tanto di lui più incline alla carriera dirigenziale tra «misteri dei ministeri», sovrintendenze alle Belle Arti e mondo delle cattedre universitarie, sia negli anni del fascismo che in quelli antifascisti della prima Repubblica. Anche Brandi naturalmente fu professore emerito nonché uomo di ispettorati e provveditorati. Ma l’incarico gli servì soprattutto a soddisfare l’amore per l’arte del passato tanto che la sua dottrina del restauro (fondò con Argan nel 1939 l’Istituto Centrale del Restauro e lo diresse magistralmente fino al 1960) resta ancora oggi una pietra miliare per la tutela e la conservazione non «falsificante» del patrimonio culturale italiano e mondiale.
Tutt’altro che freddo e calcolatore, Brandi era dunque soprattutto un esteta affascinato dalle «civiltà formali» che diventavano oggetto della sua attenzione di storico e critico. I libri monografici sui primitivi senesi e fiorentini, sul Canaletto, le magistrali osservazioni su Morandi, Burri, Manzù, Guttuso, Ceroli e Pascali, gli studi di architettura, i resoconti di viaggio (in Grecia, in Egitto, in Puglia, in Umbria, in Sicilia), le riflessioni sui rapporti tra «segno» e «immagine» e sulla figura «astante» (cioè presente, ma «non di questo mondo») nell’autentica opera d’arte, sono esempio eloquente delle diverse passioni che animarono la sua vita di scrittore e di intellettuale. La penna sempre levigata, intelligente e puntuale, irrobustita da un originale e ben meditato pensiero estetico (egli si collocava a metà strada tra l’idealismo di Croce e la fenomenologia esistenziale di Heidegger) non fece mai di lui un ideologo astruso e avulso dallo specifico manufatto d’arte che catturava di volta in volta la sua amorosa cura di analista e intenditore.
Brandi aveva una maniera quasi «poetante» di ricostruire la radice tecnico-espressiva di questo o quel capolavoro, secondo un metodo che intendeva rispettare e fare emergere la particolare «via della forma» perseguita da ogni artista. E per venire al contemporaneo, nulla lo infastidiva più dei critici che «inventano tendenze» anziché «seguire, indirizzare gli artisti, indicare eventuali errori di gusto» mediante una «lettura particolarizzata» capace di fare emergere la tanto venerata «epifania della forma».
Questa preziosa indicazione di metodo, nonché la tirata d’orecchie agli esegeti del nascente e invasivo «sistema dell’arte» («rispetto ai primi del secolo - diceva ancora nel 1984 - la situazione è rovesciata: oggi non sono gli artisti a suscitare le teorie, ma è il critico che “fa nascere” gli artisti») conferma ancora oggi tutto il suo pungente valore polemico.

E nel momento in cui di Cesare Brandi ricorre il centenario della nascita sarebbe più che utile celebrare nella sua opera non solo uno dei maggiori «monumenti» della letteratura artistica italiana del ’900, ma soprattutto una salutare lezione da non dimenticare per il bene della libertà di critica e di espressione nella civiltà della comunicazione contemporanea.

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