Ma che svolta lo scontro alla luce del sole

RomaFini che parla con le mani in tasca. Berlusconi che lo interrompe d’impeto, ma poi si zittisce. Fini che stritola, più che masticare, un chewing gum grande quanto un intero pacchetto di Big Babol. Berlusconi che pianta le braccia ai lati del palco, in posa da Trinità. Fini irridente nel lungo serpente rosa che porta a mo’ di cravatta. Berlusconi che gli punta contro i due indici come fossero due colt. Fini che replica con il ditino professorale, e si fa vittima sacrificale davanti all’altar maggiore.
Immagini che resteranno nella storia della comunicazione politica, immagini che rendono l’idea anche senza audio. Sta proprio in questa mimica plastica il significato profondo di quanto è accaduto l’altroieri all’Auditorium: un significato che nelle parole più crude intercorse tra i due - dimettiti, e che fai mi cacci? - trova soltanto l’ultimo corollario. Altro che partito di plastica, altro che minuetti cui ci avevano abituato sessantacinque anni di democrazia all’italiana. «Scontro senza precedenti», s’è detto. Di sicuro non preparato ad arte, magari sfuggito di mano a entrambi, eppure segno di vitalità così forte come non si vedeva da decenni, in un partito.
Tanto forte, forse persino rude, da choccare gli stessi testimoni dell’evento (e i giornalisti che seguivano dalla sala attigua). Emozione tanto improvvisa che alla ministra Meloni, alla senatrice Gallone e alla deputata Frassinetti - anime evidentemente candide - sono spuntate le lagrime. Eppure lo spettacolo non era poi tanto male, con i due «big» che si dicevano finalmente tutto, ma proprio tutto, senza timore di nulla. Male ha fatto il segretario del Pd, Bersani, a cercare una misera speculazione anche su questa scena così innovativa della politica italiana. «Quello che abbiamo visto è sconcertante, uno spettacolo indecoroso, anche sconveniente... ».
Niente di più falso. Non si tratta di privilegiare il duello rusticano alla pacatezza dei ragionamenti (nel caso in questione, i due non saranno stati pacati, ma ragionavano eccome). Né si può addebitare al malcostume imperante in televisione la perdita di scudi verbali e perifrasi scintillanti. Emerge piuttosto con evidenza un passaggio cruciale nella dialettica politica italiana, fatto di trasparenza, di coraggio, di riconoscimento democratico dell’avversario. Senza ipocrisie di sorta. Magari D’Alema e Veltroni avessero avuto il coraggio (per non usare un termine più consono) di fronteggiarsi ai congressi, nelle direzioni, o nei comitati centrali con la stessa veemenza, la stessa chiarezza d’intenti, lo stesso linguaggio comprensibile a chiunque. Ci saremmo risparmiati anni e anni di veleni e sgambetti, la morte di una sinistra per consunzione nauseabonda, la putredine di atteggiamenti vigliacchi e dunque ancora più biasimevoli.
Anche i grandi capi delle correnti democristiane litigavano. Ma sempre e comunque lontano dagli occhi indiscreti del popolo che può giudicare. Le loro inimicizie venivano consumate in guerre striscianti che facevano cadere i governi, determinavano improvvisi cambi di ministri, inspiegabili (ai più) scelte politiche. Non a caso per anni e anni il nostro Paese veniva studiato per l’esistenza di crisi «extraparlamentari», punte fenomeniche di scosse che pervadevano il corpaccione del Partito ipocrita. Peggio ancora - perché totalitaria - era la dialettica in seno al Pci, di cui Bersani s’è fatto inconsapevole portatore (sano, si spera). Laddove la «convenienza» significava sempre non far sapere nulla al popolo bue, salvo magari creare ad arte una cornice di disinformatzja che denigrasse il perdente di turno. Gli strappi, anche ai congressi, avvenivano sotto la coltre di un linguaggio politico astruso, ricco talora di riferimenti colti, ma anche autoreferenziale. Senza contare che le assemblee interne ai partiti - congressi compresi - erano il più delle volte preparati dalle maggioranze, con finalini precostituiti e rituali spazi di dissenso lasciati alle minoranze. Ciò che è andato in onda alla direzione nazionale del Pdl è qualcosa di profondamente diverso e moderno: due leader in dissenso insanabile che sanno cantarsele (senza suonarsele, almeno in sala).
Tutti hanno capito, tutti potranno darsi una spiegazione, tutti potranno approfondire i motivi e le ragioni di ciascuno. Il pugno di ferro dentro un guanto di velluto poteva andare bene al potere di un tempo, in quanto immutabile e dedito - per definizione - agli arcana imperii.

Dallo scontro Berlusconi-Fini viene fuori un’altra storia, un’altra democrazia (magari ancora in cerca di un assetto verbale), un partito del popolo che parla il linguaggio del popolo. Il Re si denuda senza vergogna. Anzi, fa mostra d’un fisico non disprezzabile.

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