«Chi non è di sinistra si vergogna della propria cultura»

«Chi  non è di sinistra si vergogna della propria cultura»

Eric Brunet ama definirsi «il conduttore meno pagato di France Télévisions». La sua trasmissione su France3, Le plus grand musée du monde, è comunque seguitissima. Lui è un francese atipico, che abita nel sobborgo dorato di Saint-Cloud e se ne va apposta al mitico Café Flore, quello di Sartre, per fare aperitivi controculturali. È di destra, Brunet, e non lo nasconde. Naturale che il suo libro, ora proposto in edizione italiana come Il tabù della destra. La Francia ha Sarkozy: e l’Italia? (Castelvecchi, pagg. 271, euro 18), in Francia abbia fatto gran dibattito alla vigilia delle elezioni presidenziali. Perché la tesi di fondo, sviscerata in forma di una puntigliosa inchiesta sui «clandestini dell’ideologia» che Brunet ha pescato nei media e nel mondo intellettuale ma anche nel pubblico impiego o nei sindacati, svela il paradosso di una società che vota in maggioranza per la droite ma dove essere di destra significa ancora essere etichettato come facho e reazionario. O, più semplicemente, «non fa chic». Sicché, mi ripete, «in Francia l’alternanza tra destra e sinistra negli ultimi sessant’anni è stata illusoria». Una tesi assurda, ha detto qualcuno: «Ma non è solo un problema di egemonia culturale della sinistra. La destra si è disinteressata della cultura».
Brunet, lei ha detto: «La destra ha i complessi che la sinistra le ha infilato in testa».
«Dal 1945 la sinistra in Francia si è impadronita del potere culturale, ha riscritto la storia nazionale, ha occupato la scuola e l’università, ha ridisegnato l’arcipelago dell’informazione. Il numero di intellettuali di destra nel dopoguerra è molto scarso, e un Raymond Aron ha vinto solo dopo morto la sua battaglia culturale. E la destra, anche e soprattutto quella gollista, che ha fatto? Un po’ come la Democrazia cristiana in Italia, ha pensato solo a gestire il potere, stabilendo che il terreno del pensiero e della cultura non le interessava. Ha capitolato nella battaglia delle idee. E così...».
... e così?
«... la destra si continua a definire in base agli stereotipi che le affibbia la sinistra. La gente di destra, in un certo senso, si vergogna della propria cultura. L’uomo di sinistra è per definizione disinteressato, l’uomo di destra attaccato al denaro. Da una parte la passione per le idee, dall’altra il fric, la passione per la grana. Da una parte la libertà e la solidarietà, dall’altra l’ordine poliziesco e l’egoismo. Tant’è che la nuova destra di Sarkozy viene presa in giro come destra bling-bling - è il rumore della roulette - per dire che è una destra affarista, che legittima solo il potere fondato sul denaro e l’ostentazione della ricchezza. Guardi come hanno crocifisso Sarko quando, neoeletto, è stato ospitato sullo yacht del magnate Bolloré, tra l’altro uno dei pochi capitalisti che non fa affari con lo Stato: eccoli qui, i tabù, che hanno portato anche uno come Alain Finkielkraut a dire di “provare vergogna” per il gesto del suo Presidente! È la dimostrazione lampante di come la destra abbia interiorizzato il complesso di essere legittimata dal potere culturale gauchiste».
Però la destra francese ha avuto De Gaulle, è stata per decenni al governo, e c’è ancora.
«Infatti: essere di destra è una libertà che i francesi hanno un secondo all’anno, quando vanno a votare. E stop: per il resto, il potere in Francia è tutto nelle mani della sinistra, che ha monopolizzato i media, la funzione pubblica, i sindacati, il mondo intellettuale, ponendo in essere un sistema molto raffinato per rendere perenne la sua leadership. Certo, c’è una “Francia reale” che vota a destra e vuole le riforme, ma c’è una “Francia ufficiale” che resta ancora a un’idea arcaica di sinistra: l’altro giorno il patron di FNAC ha invitato i socialisti a essere più attenti alle ragioni dell’impresa, e l’hanno sommerso di critiche. La destra ha la maggioranza politica, è vero: ma prova a riformare il sistema dell’educazione, e vede cosa succede».
Non esagera con il vittimismo?
«Quando hai una sinistra che in sessant’anni ha colonizzato l’immaginario nazionale, fino a stabilire quali telefilm o trasmissioni televisive bisogna vedere, e quasi criminalizzato lo stare a destra, no».
E i giornalisti che fanno?
«Secondo un sondaggio Ipsos, il 94 per cento dei giornalisti francesi è di sinistra».
Addirittura.
«È vero! Al Figaro i tre quarti della redazione sono di sinistra. Se trova una firma di destra al Monde, per favore mi chiami... I giornalisti giocano a fare le vittime del potere, in questo caso del Sarko amico dei capitalisti della stampa, e invece continuano a essere i protagonisti di un nauseabondo conformismo culturale. Preferiscono mettere le loro Montblanc nel senso del vento».
Quali sono allora le voci libere in Francia?
«Pochissime. A parte la storia tutta a sé di Alain de Benoist, mi vengono in mente Éric Zemmour del Figaro - un vero combattente del pensiero, a differenza del suo direttore, il mondano-chic Nicolas Beytout -: è un piacere guardarlo su On n’est pas couché, un bel programma di France2. C’è un economista eterodosso come Nicolas Baverez. Ma il migliore di tutti secondo me è Jacques Marseille, un sociologo di destra che dice e scrive cose straordinarie, davvero controcorrente».
Pochissimi davvero.
«È così. Insomma, se ero l’unico di destra alla scuola di giornalismo, è perché a un certo punto la destra non ha più fatto sognare nessuno. È da tempo che esorto Sarkozy a trovare il suo Jack Lang o il suo Malraux. Non basta, come fa Sarkozy, mettersi affianco un po’ demagogicamente un cantante famoso come Johnny Hallyday. La destra deve riconciliarsi con la cultura, che non può continuare a essere confinata alle pagine color salmone del Figaro. E deve finalmente tornare a parlare di utopie, di speranze, di passione, non solo di buona gestione dell’economia».
Prima delle elezioni presidenziali ha detto: «Sarkozy è straordinario». Oggi lo ridirebbe?
«Credo che sia un riformatore sincero, pieno di buone intenzioni, di desiderio e di passioni. Un romantico in senso quasi letterario. Ma...».
Ma?
«Sono molto pessimista».
Non ci credo. Sarko ha quasi il 60 per cento dei gradimenti. I media internazionali lo dipingono come un caterpillar politico che vuole rivoluzionare la Francia.
«Lasciamo stare le percezioni e parliamo della realtà. Oggi tutte le riforme su cui Sarkozy aveva puntato nella sua campagna elettorale, dalla riforma delle pensioni dei “regimi speciali” all’università, vengono ritirate o comunque rallentate. Il potere dei gruppi organizzati, in primo luogo dei sindacati, è ancora fortissimo, un 20 per cento di francesi che detta legge e fa la legge. Sarko ha appena passato un ottobre davvero nero su tutti i fronti».
Sarko è il simbolo di una nuova destra, modernizzatrice, dinamica.
«Lo ripeto: non penso che sarà il Blair della destra francese. Anzi, corriamo il rischio di avere uno Chirac-bis».
Adesso sta esagerando.
«Si sta combattendo una battaglia ferocissima contro Sarkozy, per sgretolarne la carica riformista e il consenso sociale. Il peggio che può accadere per uno come lui che ha il piglio del seduttore. In politica il “seduttore” ha l’ossessione di piacere. Sarko vuole convincere a ogni costo tutti, ma proprio tutti i francesi, della bontà dei suoi propositi riformatori. E cosa succede? Che parte con un progetto e poi, per farlo digerire ai diretti interessati, media, media, media, e alla fine il progetto di partenza finisce snaturato. Sappiamo tutti che per fare le vere riforme devi anche accettare dei periodi di impopolarità: lui non ce la fa».
Qual è l’immagine del centrodestra italiano in Francia?
«Un’immagine ultra-caricaturale pompata dai media. Silvio Berlusconi viene ritratto come un affarista bling-bling che non pensa all’Italia ma al suo business. Una destra volgare.

Non a caso quando Sarkozy è arrivato alla Presidenza della Repubblica la prima cosa che gli si è detto è di stare attento a non “berlusconizzarsi”. Io penso che siano scemenze assolute, ma anche in Italia la destra deve recuperare sul terreno della battaglia culturale, dell’immaginario e della speranza».

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