Settembre '96, Miguel Indurain scende dai pedali: il ritiro di un eroe normale

La Vuelta di quell'anno sancisce l'addio del sovrano navarro: affaticato e ansimante si sgancia dal gruppo a 25 km dall'arrivo, per sempre

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In fondo i suoi gliel'hanno sempre ripetuto: la vita è come un campo da coltivare. Devi conoscere la composizione del terreno, non sindacare il meteo anche se è perfido, capire quando è il caso di spingere e quando, invece, non serve accanirsi. Una saggezza contadina che si srotola facile in teoria, ma poi metterla in pratica è un altro discorso. Specie quando la pianta sei tu. Allora tutto si incarta. Mica lo accetti che un giorno eri ben dritto e vigoroso, mentre oggi sembri avvizzire gradualmente.

I primi sintomi di quella indecente decadenza - per un campione del suo calibro - Miguel Indurain li aveva già avvertiti tutti al Tour di quell'anno. Luglio 1996, giorno sei. La corsa si arrampica sulle pendici di Les Arcs. Forse non è il giardino di casa del sovrano feudale - uno che ha vinto le ultime cinque edizioni - ma deve comunque trattarsi della solita salita gestibile. Miguelón, come lo chiamano praticamente tutti, si issa quasi in piedi ed inizia a salire, convinto di poter estrarre da quella pedalata poderosa un nuovo scintillante piazzamento.

Nel frattempo vede partire, al suo fianco sinistro, un manipolo di fuggiaschi. Poco male, riflette interiormente, perché arrampicarsi per primo in cima alle vette non gli è mai sembrato un esercizio troppo intelligente. Alla fine conta la classifica generale e lui, con le crono, serve un puntuale gioco-partita-incontro a tutta la truppa. Devono averglielo trasmesso in quel villaggio contadino, Villava, dove è cresciuto: si può anche vincere restando normali. Non serve strafare.

Miguel è l'archetipo di questo ragionamento. Non è certo il tipico iberico che pulsa passionalità, uno di quelli capaci di sfoderare imprese luccicanti e poi anche di sprofondare nell'oblio, trascinato dall'istinto e dall'individualismo tipici del suo popolo. Piuttosto, pare un misurato diplomatico della bicicletta. Mai una sbracatura con la stampa, mai un gesto fuori posto con i colleghi. Essere un eroe sellato da una disarmante normalità significa non avere nemici. Solo estimatori. Piace alquanto, alla narrazione popolare, anche il fatto che la sua figura pesante e prolungata sia del tutto inadeguata al ciclismo, eppure trionfi lo stesso.

Quel giorno però Miguel si scambia del tu con un sentimento inedito. Bradicardico per eccellenza, sente che il cuore tambureggia perfidamente. Le gambe si fanni presto molli. La gola si secca e le pupille diventano opache. L'uomo che è solito arrivare al traguardo tirato e asciutto, per la prima volta avverte una fatica che riesce a rallentarlo. Disperato, mima con le mani il gesto di una borraccia salvifica, ma non si accosta nessuna ammiraglia. Intanto lo passano a frotte e si ritrova cacciato in fondo al gruppo. Un delitto inenarrabile.

Anche i commentatori si accorgono in fretta di quella potenziale disfatta. "Ma come? Indurain è umano?", discettano al microfono, subito appigliandosi alla notizia del giorno. Lui reclina la testa per la prima volta e ingurgita la pozione amara della sconfitta. Ma lo capisce, in fondo, che quello dev'essere più di un dimenticabile intoppo. La conquista della medaglia d'oro nella crono olimpica di Atlanta lenisce e scansa in parte quella sensazione. Ma il sovrano sa che sta per arrivare il momento di deporre la corona.

20 settembre 1996, tredicesima tappa della Vuelta di Spagna. Finora Indurain ha faticato più del dovuto, ma comunque è dentro la corsa. Solo che adesso, mentre prova a macinarsi la salita di Lagos de Covadonga, gli spettri più recenti pretendono di passare all'incasso. Una nuova crisi giunge terrificante, come tutte quelle cose che incrinano il comfort dell'abitudine. Miguel annaspa penosamente, curvo e pesante. Mentre pedala tossisce: ha preso freddo nella precedente tappa di Avila, ma anche questo è un segno del decadimento fisico che dilaga. Non aveva mai patito nemmeno un raffreddore.

L'eroe normale scivola in fondo al gruppo. La sua crisi diventa talmente profonda da sbiadire pure il giallo aureo di Atlanta e quello ricorrente dei Tour. Il momento è arrivato.

Miguel ferma la bici e scende dai pedali, a 25 km dall'arrivo. Non ci risalirà più, dignitosamente consapevole dell'alternarsi delle stagioni. In fondo lo sanno anche a Villava: c'è un tempo per coltivare e uno per raccogliere.

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