“Aquaman e il regno perduto”, stessa ricetta ma fuori tempo massimo

Il sequel conferma cast e mood cinematografico del primo film ed è da prendere per quello che è, ovvero un’overdose di computer grafica in cui le scene scanzonate affievoliscono l’epica

“Aquaman e il regno perduto”, stessa ricetta ma fuori tempo massimo
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Aquaman e il regno perduto, il quindicesimo lungometraggio dell’Universo DC, è al cinema e arriva a ben cinque anni di distanza dal precedente film dedicato al re di Atlantide, che al botteghino superò il miliardo di dollari. Nel mondo dei cinecomic però un lustro può venire percepito come un’eternità e così bisogna ammettere che la nuova avventura con Jason Momoa per protagonista sembra nata già vecchia. A poco serve, in questo senso, attualizzare il messaggio del film legandone la trama a una futura catastrofe climatica.

Nell’incipit Aquaman (Momoa) si divide nel globo terracqueo in due vite, quella di re del mare nel profondo dell’oceano e di neo padre in superficie.

Si è sposato con Mera (Amber Heard) e appare felice, se non fosse per le tante responsabilità. Un giorno il suo Regno pacifico viene minacciato da Black Mantha (Yahyah Adbul-Mateen II), intenzionato a distruggerlo per vendicare la morte del padre. Il nemico si è imbattuto infatti un misterioso artefatto che, connettendolo a un passato antico e corrotto, gli dona un potere straordinario. Per poterlo fronteggiare, Aquaman dovrà rivolgersi all’ultimo degli ipotetici complici, ovvero al fratello Orm (Patrick Wilson).

“Aquaman e il regno perduto” è poco più di un popcorn movie in cui humor e spensieratezza si sposano ad azione epica con innesti horror (il regista è pur sempre James Wan, quello delle saghe di Saw, Insidious e The Conjuring).

L’aria vintage è rafforzata dalla presenza di “Born to be wild”, brano degli Steppenwolf uscito nel 1969 divenuto iconico con “Easy Rider”, che si sente durante le scorribande marine del protagonista ma anche nella sua impegnativa gestione di un lattante.

In tutto e per tutto simile al primo, questo nuovo “Aquaman” ne ricalca il tono ma non è in grado di replicarne la leggerezza autentica e un po’ carnevalesca. Qui l’euforia suona artificiosa e l’iper-dinamicità non basta a nascondere l’effetto già visto.

I momenti più riusciti sono quelli legati alla godibile dinamica tra fratelli, in stile buddy comedy.

Jason Momoa gigioneggia, statuario più che mai, mentre sono relegate ai margini Nicole Kidman e Amber Heard (per quest’ultima girava addirittura una petizione affinché fosse esclusa dal cast dopo il poco edificante processo-scandalo contro Depp).

“Aquamen e il regno perduto” è un minestrone di citazionismo parodistico, ilarità fracassona, computer grafica invasiva e gusto al confine col trash.

Il film, a livello di significato, gronda ambientalismo, percorso com’è da sacrosante questioni come il surriscaldamento globale e le mutazioni dell’ecosistema; la serietà di tali temi è mitigata da gag come quella sul cibarsi di insetti.

Il finale sancisce l’importanza dell’allearsi in difesa del pianeta e, come da tradizione, c’è una scena tra i titoli di coda.

Così è se vi pare. L’epoca d’oro dei cinecomics sembra essersi avviata al tramonto, il che metterà malinconia agli appassionati del genere e farà la gioia dei puristi del cinema classico.

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