Collezioni, influencer, "artcoin". Serve aria nuova al museo

La pandemia ha stravolto l'intero sistema. Per ripartire non è sufficiente aprire. Occorre un altro "stile"

Collezioni, influencer, "artcoin". Serve aria nuova al museo

Mentre in Italia si discute del cenone di Natale e delle vacanze in montagna, se far funzionare o meno skilift e seggiovie, in Francia dal 15 dicembre riapriranno musei, teatri e cinema. Il presidente Emmanuel Macron ha dichiarato che «la cultura è essenziale per la nostra vita di cittadini»; salvo imprevisti, nel prossimo Dpcm di Giuseppe Conte, atteso a giorni, non sembra si prenderanno provvedimenti simili. D'altronde l'intellighenzia italiana nei mesi scorsi è stata rigorista, schierandosi a favore dei provvedimenti più severi contro la diffusione del Covid, sostenendo norme (talvolta insensate) sul distanziamento e per evitare assembramenti. Solo quando un mese fa il governo ha deciso, per la seconda volta, di serrare i luoghi della cultura, gli intellettuali hanno fatto retromarcia. Troppo tardi però. Anche se appare condivisibile l'appello di Sergio Risaliti, direttore del Museo del Novecento di Firenze, sottoscritto da 80 addetti ai lavori, e indirizzato al ministro Dario Franceschini, affinché si possano riaprire i musei almeno nelle zone gialle, essendo servizi essenziali come parrucchieri e negozi.

MISSION E MISSIONI A esser sinceri, molti musei avevano già impostato prassi di distanziamento e di poco affollamento; i dati dei visitatori e degli introiti, se ben letti, anche prima del Covid mostravano un sistema che in Italia non cresceva, o non cresceva come si voleva e si diceva. Eppure fino al 2019 si stava prospettando a livello mondiale una sorta di inveramento della civiltà museastica, essendo i musei per numero (circa 80mila) e dal punto di vista simbolico e architettonico le nuove cattedrali in cui cercare la salvezza dell'anima. Non a caso, i musei soprattutto del contemporaneo si autoassegnano finalità ulteriori rispetto a quelle della semplice conservazione, cioè «mission» che hanno assunto, in questo frangente, toni misticheggianti: in luglio Suay Aksoy, l'uscente presidentessa dell'Icom (l'Internation council of museums) sosteneva che i musei oltre a contribuire allo sviluppo della democrazia e al benessere della persona, si trovano ad affrontare sfide epocali: sostenibilità ambientale, lotta alle diseguaglianze e alle discriminazioni.

BLM&METOO Si comprende che il contesto sarà etico e green più che estetico. E il politicamente corretto giocherà un ruolo importante. In questi mesi è stato defenestrato dopo una protesta del movimento Black Lives Matter (Blm) il direttore del Museo di arte moderna di San Francisco: voleva continuare ad acquisire opere di artisti bianchi oltre che, ovviamente, opere di donne, artisti di colore e Lgbtq; allo stesso modo il direttore del più importante museo di arte contemporanea della Polonia è stato licenziato per aver acquistato un'opera che richiamava un immaginario omofobico; nel mentre quattro musei top (Washington, Boston, Houston e la Tate Modern di Londra) hanno cancellato la mostra di Philip Guston, maestro dell'espressionismo astratto scomparso nel 1980, reo di aver rappresentato nei suoi ultimi lavori personaggi incappucciati alla Ku Klux Klan: crediamo noi per stigmatizzare il razzismo, essendo egli ebreo, figlio di una famiglia fuggita dai pogrom di Odessa, ma così non è sembrato ai solerti curatori che hanno preferito rimandare in nome di una non ben comprensibile «giustizia sociale». I musei americani sempre all'avanguardia iniziano a rileggere la storia dell'arte rendendo i propri percorsi espositivi meno occidentalocentrici, meno biancocentrici, meno maschiocentrici.

DEACCESSIONING Gli stessi musei anglosassoni per sopravvivere alla crisi, non potendo contare su aiuti pubblici, hanno cominciato a vendere le proprie opere. Il cosiddetto deaccessioning, ammesso se si tratta di cedere un'opera per acquistarne una più utile alla collezione, di questi tempi ha avuto finalità meno culturali, cioè salvare il posto a lavoratori. La Royal Academy di Londra ha pensato di vendere il Tondo Taddei di Michelangelo per evitare il licenziamento di 150 dipendenti, mentre il Brooklyn Museum di New York ha messo davvero all'asta opere di Monet, Degas, Matisse, Miró e Courbet.

JUVENTUS E GUGGENHEIM In Italia, dove non si possono vendere le collezioni, nei vari provvedimenti di ristoro dedicati alla cultura, utili ma non sufficienti, il ministro Franceschini ha dunque assegnato ai musei non statali 70 milioni di euro. Una lista di oltre seicento istituzioni meritevoli di un aiuto, in base ai biglietti staccati negli anni precedenti, in cui si trovano perfino i privati ricchi che non ti aspetti. La scicchissima fondazione Peggy Guggenheim di Venezia riceverà 980mila euro come cadeau dallo Stato italiano. La Fondazione pinacoteca del Lingotto Giovanni e Marella Agnelli, nel cui consiglio siede John Elkann, ne avrà 85mila, mentre Fca, cioè la galassia ex Fiat, ha ricavi per oltre 100 miliardi di euro l'anno; e al museo della Juventus vanno 530mila euro di recovery.

I TOKEN E LA GIOCONDA Anche in Francia i quadri dei musei non si possono vendere, ma gli introiti, perfino quelli super del Louvre (200 milioni di euro annui), non sembrano bastare, o almeno non sembrano corrispondere al valore dormiente delle migliaia di opere d'arte in esso contenuti; e così qualcuno sta pensando a come far fruttare il tesoro. Se un quadro di Leonardo di dubbia attribuzione come il Salvator Mundi è stato battuto all'asta per 450 milioni di euro, quanto potrebbe valere la Gioconda? Non ha prezzo, dicono gli esperti; proprio perché non si può vendere. Ma con la nuova tecnologia della blockchain si potrebbe dividere virtualmente il quadro in tanti «token», cioè in tanti certificati di proprietà, che poi verrebbero messi sul mercato e scambiati come bitcoin. Quante persone sarebbero disposte a comprarsi un'azione della premiata ditta Leonardo da Vinci, pensando sia un investimento più redditizio dei bond argentini o delle obbligazioni Mps? Per ora è fanta-arte, ma gli esperti di cryptocurrency hanno ipotizzato per la Monna Lisa un potenziale di 50 miliardi di euro che si potrebbero realizzare tokenizzandola senza perdere il controllo dell'opera che resterebbe al suo posto.

DIGITAL E INFLUENCER Sulla scorta dei «token», si sta lavorando agli «artcoin», cioè monete virtuali con un sottostante rappresentato da opere d'arte. I musei italiani se da un lato proclamano una rivoluzione digitale, assecondando il ministro Franceschini per cui sarebbe necessario un «Rinascimento globale», dall'altro, più timidamente, iniziano a sperimentare i social per sopperire alla chiusura forzata. È un fiorire di roboanti iniziative, mostre virtuali, webinar, video conferenze di dubbio successo; e qualcuno si affida agli influencer. Quando a luglio gli Uffizi hanno pensato di ripostare su Instagram alcune fotografie di Chiara Ferragni durante una visita di lavoro al museo, paragonandola alla Venere di Botticelli, molti si sono chiesti se l'ibridazione possa funzionare. Si tratterebbe di alzare la Ferragni agli Uffizi e non, viceversa, di abbassare gli Uffizi a Fedez: convinto invece dell'operazione il direttore Eike Schmidt che pochi giorni dopo sbandierava un più 27% di visitatori, immaginiamo tutti follower dei Ferragnez.

VIEWING ROOM E ARTISTI Nessun aiuto è stato previsto per le gallerie che lavorano in corpore vili, cioè sulla pellaccia dell'artista, e a maggior ragione nessun aiutino per gli artisti che non sono una categoria e non hanno un sindacato. Le gallerie chiuse si sono inventate le viewing room dove il cliente collegandosi può sbirciare i quadri, quasi fosse pornografia online.

Allo stesso modo le fiere, rimandate a data da destinarsi, si sono trasformate in piattaforme digitali. Ma non è chiaro quanto l'art system potrà sopravvivere senza la transumanza internazionale di ricchi collezionisti, che si basava su weekendini e apericene, nelle capitali più cool del mondo.

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