«Combatto perché non ho scelta»

Eh Leh ha imbracciato le armi a 13 anni, dopo che i soldati trucidarono i suoi genitori. «Mio figlio un giorno vedrà la libertà. Io posso solo lottare per lui»

da Wa Ke Klo (campo del 201° Battaglione Karen Birmania Orientale)

«Di mia madre non ricordo neanche il volto. Mio padre quel giorno non c’era. I soldati arrivarono al villaggio, cercavano degli uomini da usare come portatori, entrarono nella nostra capanna... poi non so che cosa sia successo. Nessuno me l’ha mai voluto raccontare. Quando mio padre ritornò ero lì, accanto al suo corpo. Avevo un anno».
La guerra di Eh Leh inizia quel giorno. Accanto a quel cadavere straziato. Al fianco di quella madre senza volto. Inizia 20 anni fa e non è mai finita. Ker Gaw, il villaggio di Eh Leh, è al centro dei territori Karen, in quelle che il regime birmano chiama zone nere. Zone senza legge e senza diritti dove l’esercito ha licenza di uccidere. I soldati ci tornano dieci anni dopo, rioccupano il villaggio. «Si affacciano all’entrata, puntano i mitra, costringono me e mio padre a uscire, mi dicono “guarda”. Mi tengono il mento alto, un soldato impugna il machete, colpisce mio padre, lo sfigura. Con un altro colpo gli mozza la testa. Un ufficiale la raccoglie, me la mostra, la getta in un fosso. “La mangeranno i cani”, mi dice. Ancora adesso non so perché l’hanno ucciso». Eh Leh oggi ha 21 anni e da nove combatte. Per sé, dice, e per il suo popolo. «Voglio vendetta per mio padre e mia madre, libertà per i karen e per il resto della Birmania», racconta. «Mentre seppellivo mio padre avevo già deciso, volevo un fucile e volevo averlo il prima possibile». L’occasione arriva due anni dopo, quando una pattuglia karen arriva a Ker Gaw. «Appena li vedo saluto i parenti con cui vivo, corro dai soldati. Il comandante della compagnia, il tenente Sabu, me lo ricordo ancora, mi guarda dall’alto in basso: «Sei sicuro di farcela - mi chiede - la vita del soldato è dura e tu sei un ragazzino di soli 13 anni, dovresti andare a scuola, non a combattere”. Gli racconto tutto, lui mi ascolta, mi dà un fucile: “Se riesci a usarlo sarai un soldato”». Capita pochi mesi dopo. «Siamo accampati alle porte di un villaggio e io esco in perlustrazione. Sono il primo davanti a tutti, alzo lo sguardo e me li vedo davanti. Tutt’attorno è pieno zeppo di soldati birmani, gli altri dietro a me stanno già fuggendo. L’ufficiale, sento le sue urla, ordina di catturarmi. Li vedo venirmi addosso, non posso farmi prendere, ho negli occhi l’immagine di mio padre, farei la stessa fine. È il primo scontro a fuoco, ma sono calmo, rilassato. Posso solo combattere o morire. Alzo il fucile, il primo va giù, corro via, mi fermo, mi giro, rialzo il fucile - faccio come mi ha spiegato il tenente Sabu -, prendo la mira piano, piano, con calma, senza fare caso ai proiettili. Premo il grilletto quando vedo i loro occhi. Funziona. Il secondo va giù. Mi cade davanti. Un terzo è dieci metri più indietro, colpisco anche lui. Sparo ancora. Gli altri si fermano. Io corro, mi volto, sparo, riprendo a scappare, arrivo al villaggio e sono ancora vivo. I soldati birmani ci tornano un mese dopo interrogano i paesani, chiedono di me, vogliono il mio nome, chiedono chi sia il ragazzino che ha ucciso tre dei loro». Eh Leh non è cambiato. Un anno fa ha sposato Manouki una ragazza di 17 anni, ma non ha rinunciato alla divisa. «Manouki è bella, sto bene con lei, ma la mia vita è in questo posto, l’ho portata a vivere sotto il campo, quando posso sto con lei, ma il mio primo dovere è combattere. È l’unica cosa che so fare. Combatto bene perché non ho paura. Non ho paura perché non ho scelta».
Qui, al campo della guerriglia karen di Wa Ke Klo, Eh Leh ha la sua divisa, il suo fucile, le sue ciabatte e niente altro, ma non desidera di più. «Non sono andato a scuola, non ho mai passato un giorno a divertirmi, lo so, lo vedo nei film, per i ragazzi della mia età da voi è diverso, ma io non ho rimpianti, qui sognare, divertirsi non è possibile. Non ho mai avuto la possibilità di fare una scelta diversa, ma non mi lamento. Non riesco a essere infelice, non riesco a piangere, non mi capita mai. Anche quando hanno ucciso Walu, il mio migliore amico, non ho tirato fuori una lacrima. Eravamo in combattimento, stavamo sempre assieme, avevamo la stessa età. Un soldato birmano è sbucato dalla giungla, ha sparato, ha centrato Walu al primo colpo. Sono corso da lui, ho sparato, l’ho trascinato via, ma Walu era già morto. Lo guardavo, ma non ero triste. Avevo solo una grande rabbia dentro. Come quando hanno ucciso mio padre. Come quando penso al mio popolo. Per questo posso solo combattere.

Un giorno avrò un figlio da Manouki. Lui - se sarà fortunato - vedrà la libertà, conoscerà la pace. Sarà come i vostri figli in Europa. Ma per me non c’è speranza. Posso solo combattere per lui. Posso solo sognare di morire per il mio popolo».

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