Il commento Mario, cresci Prendi esempio da Gallinari

di Vittorio Macioce

Qualche giorno prima di Natale. Il Madison Square Garden sta tremando ancora una volta. Mike D’Antoni nasconde il nervosismo sotto i baffi. I New York Knicks stanno vincendo, ma i Charlotte Bobcats stanno ancora lì, non cedono, non si arrendono. La svolta è nelle mani del numero 8. È italiano, di Milano, si chiama Danilo Gallinari e per due volte si presenta alla lunetta per spezzare del tutto la resistenza della North Carolina. Non va. Sbaglia. La gente di New York torna a pensare male, come quella notte alla presentazione del draft, quando Danilo fu scelto come sesta scelta assoluta e il pubblico rispose con un tuono assordante di fischi. Chi è questo ventenne italiano? Perché lui? Da quando i «macaroni» sanno giocare a basket? Tutti pregiudizi. I giornali per un anno a dire: questo qui a vent’anni ha la schiena a pezzi. Perfino un tifoso di lusso come Spike Lee se ne uscì con un: sembra un vecchio. Danilo zitto, muto, mai una risposta. Zitto anche il secondo anno, quando ha cominciato a far capire quanto grande fosse: tiro da tre, penetrazione, tosto in difesa, decisivo quando il clima sale. Eppure i suoi compagni, vecchi mercenari della Nba, lo ignoravano. Tutto pur di non dare la palla al numero 8. L’estraneo. Quello fuori dagli schemi e non per colpa di D’Antoni. Pazienza se uno come LeBron James andava dicendo in giro: non mi dispiacerebbe giocare con Gallinari. LeBron, non uno qualsiasi, la stella delle stelle, il sogno quasi impossibile della Grande Mela.
Due errori in lunetta e tutti i vecchi pregiudizi di nuovo in campo. Nove secondi alla fine, i Knicks sono avanti di due punti, ma Acie Law sta bruciando il campo e punta il canestro. Va a schiacciare. È lì, oltre l’anello. Stock. Stoppata holliwoodiana. Il Madison vede la mano di Gallinari uscire dal nulla ed esplode. È un boato senza fine. New York ha capito che l’italiano è uno con le palle. Il bianco gioca come un nero.
Mario Balotelli è lo specchio di Gallinari. Stesso talento, capovolto. Il guaio è che il talento non è mai gratis, costa. Parecchio. E lo paghi sulla pelle, ogni giorno. È l’altra faccia del dono, quella che non fa sconti, quella che ti chiede gli interessi, quella che ti obbliga a stare sempre un po’ più in là, oltre il banale, oltre la sufficienza. Sempre, tutti i giorni che Dio manda in terra. Il talento non ha perdono. Non ha scuse. Se lo disperdi sei fottuto. Se lo sprechi sei morto. Quelli che ti hanno invidiato ti seppelliranno di risate. Quelli che ti hanno amato, adorato, scriveranno sul tuo nome una x: fallito. Chiedere a Cassano, che è ancora lì sul baratro. Chiedere a Baggio, quel giorno a Pasadena, quando il pallone volò troppo in alto. Chiedere a Rivera, l’abatino. Basta un passo falso e stai giù. E quando la botta arriva il talento non serve. Ci vuole altro, serve quell’ingrediente che fa grandi quelli non baciati dagli dei. Serve la forza umana, quella che arriva dalle viscere, di un Gattuso o di un Jack La Motta. Gli antichi dicevano che il talento arriva dagli dei, la grinta, la testardaggine, la capacità di resistere, di dire “non mi butti giù”, è qualcosa che sta alla radice dell’uomo. È quel mistero, maledettamente umano, che fa invidia agli angeli e ai demoni.
Mario Balotelli di talento ne ha tanto. Lo sa lui, lo sa Mourinho e lo sanno gli altri. Lo vedi quando carica il destro, quando punta a testa alta, leggero, uno, due, tre avversari e va via, come se tutto fosse facile, scontato. Ma quel talento, per ora, è stracarico di rabbia, di rancore, di qualcosa di non risolto. Tra lui e gli altri c’è un muro. E non è solo questione di pelle. C’è una razza di imbecilli che ulula, fa la scimmia e urla: «non esistono italiani negri». È quella quota di razzismo che cresce, demente, nelle curve di mezzo mondo. È gente che schiumerebbe rabbia anche di fronte a Pelé e Garrincha, la maestà e la poesia del calcio. Poi ci sono tutti quelli che fischiano Balotelli perché è Balotelli e sono la maggioranza. Sono quelli che lo vedono irritante, presuntuoso, viziato, o come dice Mourinho: uno che a volte dice cose che non dovrebbe dire o fa cose che non dovrebbe fare. Sono gli stessi che non sopportano Cassano o Materazzi. Balotelli è convinto che il talento sia tutto gratis, che sia una sorta di lasciapassare per scrollarti dalle spalle il mondo, un assegno in bianco. Ma il talento è prima di tutto una responsabilità e ci vogliono spalle grosse per sostenerne il peso. Mario non ha ancora vent’anni ed è solo un giocatore dell’Inter. È un’ipotesi di campione, ma sta diventando un caso, una bandiera, il simbolo di una nuova generazione. Tutto questo pesa. Qualche volta le parole sono inutili. I veri schiaffi a chi ulula e a chi insulta arrivano con una stoppata in faccia, lì dove si vede solo la luna.

Magari in una notte di Champion, l’ultima, con le braccia alzate e quella coppa che non è nerazzurra dal ’65, dai tempi di Sarti, Burgnich e Facchetti... Il talento costa, ma quando si accende è una magia. Basta un gesto e il mondo sta zitto. Tutti: buoni e cattivi.

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