Un insospettabile Massimo D’Alema, nel suo libro dal titolo La grande occasione, afferma: «Eravamo di fatto l’unico Paese al mondo ad avere una forma di governo parlamentare quasi perfetta, così perfetta da sfiorare l’assemblearismo. Dovevamo lavorare quindi a una combinazione di parlamentarismo e “presidenzialismo”». Correva l’anno 1997, quando nel volgere di una manciata di mesi la commissione bicamerale per le riforme costituzionali guidata per l’appunto dal leader del Pd nacque tra tante attese e morì nella culla. Le responsabilità, si sa, sono immancabilmente orfane. Sta di fatto che anche D’Alema ci mise del suo.
Pinuccio Tatarella, il Gianni Letta di An, gli giocò uno scherzo da prete. In gran segreto si mise d’accordo con un fedelissimo di Bossi come Maroni e, anche grazie a due franchi tiratori del centrosinistra (si fecero i nomi di Occhetto e di Spini), per un soffio passò in commissione l’elezione popolare diretta del capo dello Stato. Apriti cielo. Pallido come un cencio, a riprova che paradossalmente gli fanno difetto i globuli rossi, D’Alema scese dal tronetto allestito nella Sala della Regina di Montecitorio e farfugliò: «Ma allora per l’elezione del Parlamento ci vuole il doppio turno alla francese». Un sistema elettorale che offre al centrosinistra maggiori opportunità di vittoria.
Alla fine tutto andò a carte quarantotto. Giustizia e forma di governo sono rimaste al palo di partenza. Mentre il centrosinistra, che allora era al potere, approvò in solitudine quella riforma del titolo V della Costituzione, relativo ai rapporti tra Stato e Regioni, che uno dei due relatori alla Camera, il diessino Tonino Soda, in definitiva sconfessò. Per forza. Per fare in fretta la gatta fece i gattini ciechi. E questa sciagurata riforma sta sempre lì a fare più danni della grandine. La Grande Riforma del centrodestra approvata nella XIV legislatura aveva il merito di porre la parola fine alla lunga transizione. Ma fu affossata per via referendaria. E la cosiddetta bozza Violante, partorita nel 2007, non ha fatto grandi passi avanti.
Adesso si ripropone il dilemma: Londra o Parigi? In altre parole, conviene percorrere fino in fondo la strada che porta al premierato di marca britannica o svoltare verso il semipresidenzialismo alla francese? Il primo corno del dilemma è da sempre il cavallo di battaglia del centrosinistra. Purché si tratti di un premierato temperato a dovere, che non morda la realtà più di tanto. Dopo iniziali perplessità, il centrodestra ha finito per accettarlo. Sia pure pro bono pacis. E di fatto si è affermato in qualche misura da un quindicennio in qua. Da quando nel 1994 Berlusconi è sceso in campo e le ha suonate di santa ragione a Occhetto, felice come una Pasqua per aver allestito una gioiosa macchina da guerra che s’inceppò. Tuttavia è bene precisare che il nostro premier non ha il potere né di revocare i ministri, che nei governi di coalizione come i nostri vale quel che vale, né di sciogliere le Camere.
Ma il semipresidenzialismo alla francese rappresenta un’alternativa ineccepibile. Ha dato buona prova Oltralpe e da noi è stato rilanciato prima da Fini e poi da Schifani. Per ora Berlusconi non ha compiuto una scelta al riguardo, ma non esclude una forma di governo che in Francia dura dal 1958, da oltre mezzo secolo. E Bersani? Fa buon viso a cattivo gioco. Non dice pregiudizialmente di no, magari per poi fare melina.
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