Le condizioni della Lega per non andare al voto

Domani ci sarà un segno direttamente dal grande capo, il Bossi, chiamato alla tradizionale festa «Berghem Fecc», nel cuore della padania bergamasca, insieme ad altri pezzi da novanta della Lega. La linea che potrà uscire dalle parole del segretario federale non sarà però diversa da quella che è emersa nei giorni del dopo fiducia. E cioè che gli assi non si discutono, Fini resta un nemico, il Pd anche e il Terzo polo è una sirena che non può far presa tra i leghisti, ma se la maggioranza deve traballare meglio mandare all’aria tutto e votare.
La Lega insiste su questo fronte pubblicamente perché deve tenere compatta la sua base, insofferente rispetto alle manovre di allargamento e abbastanza scettica anche sul federalismo fiscale, considerato una versione ancora edulcorata della vera cura per Roma ladrona, il federalismo politico. Il timone del Carroccio punta nella direzione spiegata dal ministro Roberto Maroni, ovvero che a un «tavolo» la Lega si può sedere, ma poi tutto dipende da cosa si ottiene dalla tavolata con Udc ed eventualmente finiani. Se l’esito fosse un «governicchio» costretto a richiamare ministri e sottosegretari a ogni voto d’aula, per non far mancare i numeri, i leghisti difficilmente darebbero l’assenso. «Meglio due mesi di campagna elettorale che due mesi di un governicchio esposto a rischio di attacchi speculativi» dice Maroni. Meglio così anche perché la Lega teme le critiche del proprio elettorato nel caso in cui il partito appoggiasse un assemblaggio pericolante di voti parlamentari, o si unisse «al buio» a un Udc che sul federalismo non è certo in linea con Via Bellerio.
Le elezioni non sono l’opzione primaria su cui ha lavorato la Lega, che invece puntava sulla continuità di una maggioranza mai così solida in Parlamento. Ma il voto resta la carta da giocare per spianare un campo divenuto troppo complesso, e per smarcarsi dai giochi di palazzo invisi al popolo leghista (in parte già scettico sulla Lega di governo e non solo di lotta). Perché più si va avanti così, nell’incertezza, più cresce il malumore della base leghista, più cresce quindi il nervosismo dei vertici della Lega, che però devono fare i conti con le valutazioni del premier.
A preoccupare Bossi sono anche alcuni episodi delle ultime settimane, prima il caso Carfagna, poi quello Prestigiacomo. C’è cioè il sospetto, nella Lega, che i veleni finiani agiscano anche dentro il Pdl, con delle quinte colonne interne, e non solo da fuori con Fli. E che questo sia un pericoloso fattore di instabilità. La richiesta di un dibattito parlamentare sulla poltrona di Fini a Montecitorio, promosso dal capogruppo leghista Reguzzoni, non vuol solo dire mettere sotto accusa la finta terzietà del presidente della Camera, ma anche fare una verifica sulla compattezza della maggioranza rispetto al terzopolismo di Fini, Casini o Micciché.
Il pressing leghista sul premier è anche un modo per alzare il prezzo del proprio assenso a eventuali (e tutti da vedere) allargamenti al centro. A Bossi preme che la strategia di consolidamento messa in atto dal Pdl non intacchi minimamente i punti saldi della fedeltà leghista, per il resto il Carroccio - che in autunno si era fatto mediatore - sta lasciando il pallino in mano al Cavaliere, in attesa di chiarimenti alla ripresa dei lavori.

L’astensione del «terzo polo» sulla sfiducia a Calderoli è un segno di pace positivo, ma non basta. Sono ancora piccoli sprazzi di azzurro in un cielo in prevalenza nuvoloso. O si apre definitivamente, e presto, o tocca sperare in un temporale che spazzi via tutto.

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