Conversione sulla via di Beirut

Qualche giorno fa, un alleato democristiano di Forza Italia ha dichiarato che non intende «morire berlusconiano». Ora, a parte che non c’è alcuna ragione per morire, perché la vita è bella anche per i democristiani, vorrei qui sostenere che la vita è, o dovrebbe essere, ancora più bella per i berlusconiani, almeno per un aspetto. Riguarda la politica estera e ciò che è ad essa associato. Più precisamente, riguarda il nostro atteggiamento verso la politica estera dell’attuale governo. Lo stesso alleato democristiano ha detto che voterà «a prescindere». Interpretato nobilmente e non alla maniera di Totò, immagino volesse dire che, siccome militari italiani sono partiti per il Libano, è bene che abbiano anche il nostro sostegno. Giusto, quando si muovono i soldati italiani, è bene che tutta l’Italia sia con loro. Ma la domanda è: perché partono i soldati italiani?
La prima risposta è: partono perché lo chiede l’Onu. Questa risposta è sbagliata, perché la maggioranza che sostiene il governo si riserva, di volta in volta, di valutare se ciò che chiede l’Onu sia giusto o no. E del resto così fanno tutti i governi, anche in Europa, anche in questa circostanza. L’Unione Europea è oggi composta di venticinque Paesi, ma non tutti hanno inviato truppe. Quando l’Onu, con tanto di risoluzione del Consiglio di sicurezza, chiese alla comunità internazionale di intervenire per ricostruire l’Irak, l’attuale maggioranza, allora opposizione, disse no perché lì c’era stata una guerra sbagliata, ingiusta, aggressiva. Non è vero dunque che se l’Onu chiama l’Italia deve sempre rispondere. Qualche volta alcuni lo fanno, qualche volta non lo fanno.
Proviamo allora con un’altra risposta: l’Italia invia truppe in Libano perché si tratta di una missione di pace. Anche questa però è una risposta sbagliata. Riguardo alla pace, questa missione è peggio di quella in Irak e assai peggio di quella in Afghanistan. Peggio di quella in Irak, perché lì la guerra era ufficialmente finita e si trattava di aiutare un Paese nel suo passaggio alla democrazia, ciò che può effettivamente essere definito «missione di pace», sia pure in un teatro ancora fumante di guerra. E di gran lunga peggio di quella in Afghanistan, perché lì, a dirci la verità, si trattava di sconfiggere i talebani, ciò che non è propriamente un’azione di pace, ma di guerra o al più, se vogliamo essere gentili per non disturbare i sonni dell’art. 11 della Costituzione e dei suoi custodi, un’azione di polizia militare internazionale. La missione in Libano assomiglia più a quella in Afghanistan che a quella in Irak. Con una piccola differenza: che non si può affermare che Karzai sta a Siniora come i talebani stanno agli israeliani. Si può affermare che l’Afghanistan sta al Libano come i talebani stanno agli hezbollah. Ma, ufficialmente, noi non siamo in Libano per combattere o disarmare Hezbollah, che, come ha detto il nostro ministro degli Esteri, è «uno dei partiti più importanti, mica un gruppo di terroristi». Dunque, noi non siamo in Libano per una missione di pace.
Ci resta un’altra risposta. Noi abbiamo inviato truppe in Libano perché provvedano alla sua ricostruzione. Ahimé, risposta sbagliata anche questa. Perché, sempre ufficialmente, quella di Unifil 2, come quella di Unifil 1, è una forza di «interposizione». Serve per tenere separati due belligeranti, per mantenere una tregua con la speranza che si trasformi in una pace durevole, e per evitare che invece si trasformi in un’altra, più ampia e cruenta, guerra.
E allora perché siamo andati in Libano? Prima di guardare all’Italia, occorre dare uno sguardo a ciò che accade sulla scena internazionale, in particolare americana.
Da qualche tempo, la politica americana sta cambiando. Sta diventando più «multipolare». In realtà, multipolare lo è sempre stata, perché non c’è missione internazionale passata dall’Onu senza il sostegno americano. Anche la spedizione della «coalizione dei volenterosi» in Irak passò dalle Nazioni Unite. E la stessa «guerra preventiva» dell’America in Irak fu, in realtà, una guerra successiva a più di dieci inutili riunioni del Consiglio di sicurezza. È vero tuttavia che oggi l’America chiede maggiore coinvolgimento internazionale, in particolare dell’Europa. Agli occhi del Segretario di Stato americano, la «vecchia Europa» di Rumsfeld sembra tornata ad essere la buona Europa di Colin Powell.
Registriamo il fatto, non diamone spiegazioni e speriamo che Iddio ce la mandi buona. Ma, passando in Italia, soprattutto registriamo il fatto che il caso ha voluto che questo cambiamento di indirizzo americano abbia coinciso con la vittoria della sinistra in Italia. «Post hoc ergo propter hoc» in politica non è una fallacia. Con senso del tempismo e dell’opportunità, il governo ha perciò cercato di farsi merito di questo cambiamento, di averlo indotto o agevolato. È così che il nostro ministro degli Esteri si è messo a dare lezioni all’America, a criticare aspramente Israele, e ad abbracciare Hezbollah. «Hand in hand» con Nasrallah e «cheek to cheek» con Condy, «diciamo».
Qual è l’effetto? È esattamente quello perseguito. L’effetto è che la spedizione in Libano è diventata una marcia di Assisi, con i pacifisti che si sono trasformati in militaristi. Sembrerebbe una trasformazione, quasi una conversione, miracolosa, con quelli che prima dicevano che Bush e Sharon hanno le mani lorde di sangue e ora marciano con il Segretario di Bush e il successore di Sharon. Sembrerebbe, ma non lo è.
Perché con l’interpretazione politica antiisraeliana e antiamericana che il ministro degli Esteri ne ha dato, la spedizione in Libano ha connotazioni sbagliate e potrà avere conseguenze catastrofiche. Quella spedizione è servita per accorpare la sinistra radicale all’insegna di multipolarismo, europeismo, antiamericanismo, antiisraelismo, onusismo, pacifismo. La sinistra radicale oggi marcia soddisfatta in Libano perché gli è stato fatto capire a tutte lettere che l’ostacolo alla pace è Israele, che Hezbollah è un partito democraticamente eletto, e che bisogna dialogare con i «resistenti» di Hezbollah e Hamas, domani con i negazionisti dell’Iran.
Fino a quando marcerà questa sinistra e questo governo? Marcerà fino al giorno dell’incidente, magari deliberatamente provocato dall’Iran che arma Hezbollah. E che farà quel giorno, quando noi saremo presi lì come ostaggi? Sparerà contro Israele, come, rifiutando l’invio di truppe, la cancelliera Merkel ha congiurato persino col pensiero? No, quel giorno la sinistra radicale griderà contro Israele, sosterrà, «diciamo», che è il solito esagerato e pretenderà il dietro-front. Compatti e uniti in marcia contro Israele e l’America prima, compatti e uniti in marcia contro Israele e l’America dopo.
Dobbiamo ammetterlo, il ministro degli Esteri ha fatto un capolavoro di politica interna. Se gli va bene, avrà vinto; se gli va male, come già sospetta che vada, avrà vinto ugualmente. Le ministre degli Esteri americana e israeliana forse fanno calcoli ottimistici o forse hanno delle riserve mentali, ma è impossibile che non siano informate dai loro ambasciatori e consiglieri. Decideranno loro.
Resta il nostro problema. Il ministro degli Esteri ha detto che un conto è la solidarietà ai militari che furono spediti in Irak, un altro conto è il sostegno alla politica estera del governo Berlusconi.

Tutto il centrodestra condivide questa massima? Perché, se sì, allora, prima del voto «a prescindere», c’è da rifletterci sopra. Stare dalla parte dell’America e di Israele e marciare contro l’America e Israele resta un paradosso.

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