Il coraggio di raccontare la fine del proprio talento

Nel "Crollo" l’autore del "Grande Gatsby" ripercorre ascesa e caduta di un intellettuale che si è fatto da solo. Ma senza mai compiangersi per l’inevitabile bancarotta letteraria

Il coraggio di raccontare la fine del proprio talento

Gli anni Trenta sembrarono a Francis Scott Fitzgerald un incubo, e un sogno il decennio che li aveva preceduti. Eppure, se qualcuno gli avesse suggerito di invertire i termini e di vedere nero lì dove la vita appariva in rosa, non sarebbe poi andato così lontano dal vero e questo, dentro di sé, lo Scott lo sapeva.

All’inizio c’era stato un talento naturale messo al servizio del successo e non della scrittura. Grazie a esso aveva avuto l’amore, la più bella, la più bionda, fra le ragazze della sua generazione, la gloria e i soldi, tutte cose a cui non era abituato né era stato preparato, e che si era lasciato scivolare fra le mani, illudendosi di poterle ogni volta riacchiappare. Nel tempo tutto era divenuto come lo spettacolo di un prestigiatore, sempre più costretto a improvvisare perché, d’improvviso, scompariva questo o quell’attrezzo del mestiere. Perché ci sia l’amore si deve essere innamorati, ma non della cosa in sé, dell’idea: a Zelda, la più bella, la più bionda, non bastava essere la moglie di Scott, la sua eroina oppure la sua musa: adorata, certo, ma come un’immagine sacra. Zelda voleva essere Scott, carne della stessa carne, e che Scott divenisse Zelda: non uno scrittore e sua moglie, ma un animale mitologico che fosse scrittore senza scrivere, soltanto vivendo. La solitudine della scrittura di lui era per lei un controsenso. Erano loro il romanzo.

Poi si appannò il talento, fino a svanire. È un processo lento, che ti illudi di poter controllare. All’inizio sei ancora in grado di capire quando stai battendo moneta falsa: arrivi persino a tenere quella buona nel cassetto della scrivania e a dare a una rivista, un editore, un pubblico, quella taroccata che sai essere più vendibile. Sei uno scrittore professionista, dopotutto, te ne sei sempre vantato, e hai una merce da piazzare e una clientela da soddisfare. E poi ci sono i conti da pagare, un tenore di vita da mantenere, e vivere fra i ricchi, senza esserlo per nascita, senza volerlo essere per il puro potere che dà il denaro, costa ed è rovinoso.

È anche per questo che cominci a bere, l’euforia che combatte la tensione, l’euforia che si oppone alla depressione, il lasciarti andare sperando che al risveglio, domani, si sia aggiustato tutto. Male che vada, almeno per quella notte non sei rimasto con gli occhi sbarrati a temere la luce della vita.
Così, di compromesso in compromesso, di eccesso in eccesso, ti ritrovi un bel giorno che non sai più chi sei. Come scrittore, intendo, che come uomo sai d’aver fallito: tua moglie è andata via di testa e sai che non ne uscirà più, sei pieno di debiti, sei alcolizzato, collezioni cattive figure e sempre più perdi antiche amicizie. Un disastro, insomma, e però a fare da pendant, a non farti crollare del tutto fino ad allora c’era stato il talento, quel dono naturale che credevi eterno e su cui non ti sei mai interrogato: c’era, chiedersi il perché avrebbe potuto guastarlo... E adesso invece se n’è andato, non fa più parte di te, e il mestiere, scrittore professionista, già, non ti aiuta, perché non riesci più a distinguere la moneta buona da quella falsa: hanno lo stesso suono e non puoi farci niente.

Infine, arrivò la Nemesi, la collera divina, un giorno d’autunno del 1929, il venerdì nero in cui crollò Wall Street e l’intera America andò a fondo. Si chiuse così il decennio degli anni Venti, l’età d’oro del jazz e delle flappers, l’età d’oro di Scott e Zelda. E questo era il sogno.

The Crack-Up, Il crollo (Adelphi, 64 pagine, 6 euro) racconta l’incubo, ma si sbaglierebbe a leggerlo come la pura e semplice descrizione di una bancarotta morale e artistica. Non era una confessione, ma il complesso lavoro di uno scrittore tornato allo stato di grazia e che quindi poteva permettersi di parlare dall’alto del proprio scacco, senza bisogno di indulgere in effetti speciali, né di sottolineare aspetti personali pietosi o scabrosi: non c’è alcol, né Zelda, né cliniche per malati di mente. È questo che fa del Crollo l’apripista di un genere sino ad allora sconosciuto nella letteratura americana: la messa per iscritto del proprio fallimento esistenziale dei Capote, dei Mailer, di Tennessee Williams, di Sylvia Plath.

Diamo ora un occhio alle date. Fitzgerald lo scrive nel 1936. Ha solo quarant’anni e gliene restano appena quattro da vivere. Undici anni prima ha scritto Il grande Gatsby, ma il successo di critica non l’ha ripagato dall’insuccesso delle vendite, inferiore ai due romanzi precedenti. La consacrazione è insomma una dannazione e Scott ha un train de vie che non contempla il sacrificio. Così, sacrifica i romanzieri.
Passano nove lunghi anni prima che ci riprovi e intanto è accaduto tutto quello che prima abbiamo già raccontato: la fine di un amore e di un matrimonio, il venir meno di un talento, l’inabissarsi di una nazione. Eppure Scott ci riprova: se «scrivere bene è nuotare sott’acqua trattenendo il respiro» si allena perché l’apnea duri sempre di più. Ha imparato a smontare il suo talento e finalmente sa come e perché funziona. Il risultato è Tenera è la notte, un capolavoro, ma arriva troppo tardi: racconta ancora di ricchi in una nazione che ha scoperto di essere divenuta povera. I critici ne parlano bene, ma vende poco o niente.

È allora che qualcosa ti si incrina dentro (più che il crollo il Crack-Up è l’incrinatura: tutto può andare in pezzi da un momento all’altro eppure tutto sembra ancora intero) e tu ti tiri fuori: non perché tu non valga niente, ma perché non ne vale più la pena. La partita è finita e non si può giocare costretti a bordo campo.

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