nostro inviato all’Aquila
Il party, per la verità, era già cominciato senza di lui. Con le first ladies, guidate dalla trillante Margarida Sousa Uva, moglie del presidente della Commissione Europea, schierate sulla pedana elastica che simula il mammatronico tremolizio del terremoto; con le last ladies, le «ultime» signore aquilane che minacciavano di sfilare in mutande per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla loro sconfortante situazione abitativa (lo slogan puntava sulla sottile, non allusiva assonanza di «tende» con «mutande»); e con il colonnello Gheddafi, la faccia ancor più crepata del solito, che ha fatto un casino d’inferno con quelli del suo seguito perché nella tenda che gli hanno montato nei giardinetti della caserma di Coppito il sistema dell’aria condizionata a un certo punto si è imbizzarrito e c’erano qualcosa come 12 gradi).
Il party, si diceva, era già cominciato senza di lui. Ma certo, con George Clooney e il fido Uòlter Veltroni, perfetto nel suo ruolo di galante chaperon, il G8 ha preso tutt’un’altra piega: più leggero, più frizzante, più trendy. Mancava solo una Carla Bruni, perché il summit virasse leggero verso la kermesse. Ma suo marito, il garrulo Nicolas Sarkozy, a un certo punto del pomeriggio scioglie l’insopportabile tensione. Sì, Carla ci sarà. Anzi, è già qui. Ma arriva tardi per partecipare insieme con Clooney e il premio Nobel per la pace Betty Williams all’inaugurazione della Nobel for Peace hall, struttura multiuso realizzata a San Demetrio con i fondi raccolti in questi mesi fra i premi Nobel per aiutare l’Abruzzo. Immenso si prevede il concorso di fotografi e cronisti, anche se incerta, fino all’ultimo, viene data la presenza di Brad Pitt. L’avvenimento finirà in copertina sul nuovissimo magazine che gira da queste parti: lo «Sfollati news».
C’è un collega del quotidiano Avvenire che quando ha visto la piega che l’avvenimento sta prendendo ha tirato fuori dal baule della sua auto una di quelle inconfondibili borse che usano i medici: di pelle, piccola e panciuta, con una complicata ferramenta in ottone. E da ieri mattina, a chi gli chiede se per caso è uno dei 3.500 giornalisti accreditati al vertice, lo guarda con aria scandalizzata, gli mostra la borsa con i ferri del mestiere, e sorridendo con una certa condiscendenza mormora un «ma le pare?».
In un angolo, quando il giorno si conclama in tutto il suo fulgore, e il sole splende alto nei cieli sfacciatamente tersi d’Abruzzo, finiscono affastellati alla rinfusa i problemi del Terzo Mondo, il clima, l’economia, la finanza globalizzata. E il cazzeggio si libra prepotente sulle teste della moltitudine di giornalisti rinserrati nelle tre galere a forma di capannone dove ciascuno è incatenato al suo remo computerizzato. Si comincia con George Clooney, assalito da una muta di fans all’ingresso di corso Federico II, che incede verso piazza Duomo con volto ora sorridente e ora pensoso; e annuncia che l’Aquila diventerà il fondale, il palcoscenico di un film che si girerà alla fine di settembre. «Avevamo esaminato le location ancora prima del terremoto – dice il quarantottenne attore del Kentucky –. E questo credo che sarà il miglior modo per dare una mano alla popolazione colpita dal sisma e rilanciare l’economia».
Clooney, accompagnato dall’attore Bill Murray e dal fido Veltroni, veniva da Sant’Eusanio Forconese, dov’era atterrato in elicottero fra il grande strepito di terremotate d’ogni età colte da mancamenti alla vista del divo più di quanto non gli accadde la notte del 6 aprile. A George i terremoti non fanno impressione. «Vivo in California, ci sono abituato», dice affabile. Però pensa che se la sua presenza servirà ad attirare l’attenzione dei media sui guai dell’Abruzzo (ma anche su quelli dell’Africa e dei pezzi di mondo dove si patisce la fame) la sua giornata non sarà stata spesa male.
Oltre che dal protagonista di Ocean’s eleven (e seguenti), la scena è stata occupata ieri dalle first ladies che si sono esibite sulle stesse macerie calcate ieri dai loro mariti. Michelle Obama, naturalmente, first tra le first, il cui primo pensiero – di fronte alle macerie dei palazzi e delle chiese sventrate – è stato per i bambini. «Quanti ne sono morti?» ha chiesto aggirandosi in tanta desolazione con i capelli stretti in uno chignon e rivestita (certifica l’esperta di moda di un’agenzia) di un «completo in taffettà e giacchino corto chiuso da un bottone gioiello». Dodici first lady. Non tutte esattamente celebri, come la canadese Laureen Harper, la sudafricana Siza Kele Khumalo Zuma e la giapponese Chikako Aso. Con loro, nei ruoli del cicerone, ci sono le ministre Carfagna e Gelmini, rispettivamente in nero inchiostro e blu navy. Da via Strinella punta sulla Villa Comunale un manipolo di altre signore, che un cartello qualifica come «last ladies», cioè il contrario delle primedonne. È la protesta di quelle che il 6 aprile hanno perso la casa e dormono in una tendopoli. San Marco, Sant’Agostino, il Duomo, la prefettura, con la sua facciata che il terremoto ha ridotto a organetto. «Ottimo lavoro – dice Michelle, riferendosi ai Vigili del fuoco, non al terremoto –. Cercheremo di fare il possibile per sostenervi». C’è il tempo di fare un giretto, dopo pranzo, con il ministro Bondi che illustra la mostra intitolata ai «Terremoti d’Italia», godersi l’ebbrezza della piattaforma che simula i movimenti tellurici, e per le signore è già tempo di ripartire per Roma.
Sullo sfondo, vagamente incongrue, incapaci di comprendere la leggerezza del momento e l’aria da festival che spira sul summit, si levano ancora gli slogan prosaici, imbarazzanti, plebei delle last ladies che protestano vivaci gridando: «Michelle, Carlà, venite nelle tende. Le donne abruzzesi vi aspettano in mutande».
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