Cori e acustica non aiutano un intenso «Stabat Mater»

Pietro Acquafredda

da Roma

Lo Stabat Mater di Gioachino Rossini, offerto con generosa dedizione dalla London Philharmonic Orchestra, dal London Philharmonic Choir e dai solisti Aliberti, Provvisionato, Alegret, Signorini, diretti con grande cura e polso da Paolo Olmi, nella Basilica di San Giovanni in Laterano, mai e poi mai farebbe pensare all’opera di un musicista che aveva deciso di mettere in catene la sua natura musicale, l’estro, l’inventiva affatto esaurita e la sapiente orchestrazione all’ancor verde età di trentasette anni.
Le soluzioni adottate per le strofe della dolorosa sequenza non cessano di meravigliarci, quale che sia il terreno di esame; lo stile, padroneggiato in ogni caso: da quello strettamente ecclesiastico, a cappella , impiegato in due diverse occasioni, con o senza coro dai solisti di canto, all’altro, contrappuntistico, nell’Amen conclusivo; il canto solistico, nelle effusioni talvolta accorate delle voci femminili e maschili; e, infine, l’orchestra, di continua sorprendente levità, a meno che non si atteggi a modi particolarissimi come nel duetto Quis est homo, annunciato dal quartetto di corni.
Curiosa assai risulta poi la storia di Rossini che torna sui fogli di musica, a due anni appena dalla consegna del silenzio, per comporre questo affresco musicale potente da collocarsi come pannello centrale del suo trittico sacro, comprendente la Messa di Gloria napoletana del 1820 e la successiva ascetica Petite Messe Solennelle(1864). Si maligna a pensare che l’unica ragione, non del tutto spregevole, sia stata il capovolgimento del luogo comune che voleva i compositori di chiesa compensati da «molt’onore, poco contante»?
Perché infrangesse Rossini il suo proposito di tacere pubblicamente come compositore, la ragione del «molto contante», messo da parte l’onore, non potrebbe aver avuto il suo peso? E così, su invito di un banchiere suo amico, e in omaggio a un alto prelato madrileno, Rossini si rimette a scrivere; la promessa che mai quella composizione dovevasi eseguirsi in pubblico e pubblicarsi neppure, senza il suo permesso, valeva come semplice formalità onde salvarsi la faccia e, ipocritamente, anche l’anima.
Poi, impossibilitato causa malattia a rispettare l’impegno assunto, Rossini si rivolse a un collega musicista che fornì le parti mancanti dell’immenso Stabat Mater.
Passano gli anni, il prelato madrileno dedicatario e custode della partitura bicefala (Rossini- Tadolini) muore, un editore ne viene in possesso e Rossini tenta di proibirne la pubblicazione; non riuscendogli, si decide a scrivere le parti mancanti e a consegnare la partitura completa al suo editore. Rimessosi al lavoro nel 1841, qualche mese dopo l’opera era già pronta; in Italia fu presentata poco dopo, nel 1842, a Bologna, con la direzione di Donizetti; ma la prima se l’aggiudicò Parigi, al Théâtre des Italiens.
Nell’esecuzione romana qualche stanchezza si avvertiva nelle voci soliste, spremute a Londra, la sera prima del concerto romano, con la Provvisionato comunque svettante sugli altri. E qualche ostacolo al perfetto godimento veniva dall’acustica non entusiasmante della Cattedrale di Roma, San Giovanni in Laterano appunto.


L’altra sera il festival romano si è chiuso in bellezza con i Wiener Philharmoniker e il Coro dei Wiener Singverein, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, diretti da Seiji Ozawa, nella impegnati nella Sinfonia n.9 e nel Te Deum di Anton Bruckner.

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