Dei romanzi del mare scritti da Pierre Loti, Matelot, tradotto ora per la prima volta in italiano (Uomo di mare, Robin Edizioni. Biblioteca del Vascello, pagg. 132, euro 16, a cura di Giuseppe Balducci), è anche in Francia quello rimasto più in ombra, schiacciato dal successo di Mon frère Yves e Pêcheur d'Islande che pure l'avevano preceduto, ma che nel tempo gli si sono come sovrapposti, la terribilità dell'Oceano a fare da contrappeso e insieme da calamita alla fragilità dell'essere umano, per quanto tenace e disposto a soffrire e a combattere egli potesse dimostrarsi. Eppure, per molti versi, quel terzo romanzo ne era una sorta di completamento, perché metteva in scena non tanto una vocazione (anche Jean Berny, il suo protagonista, si rivelerà nel tempo un bravo marinaio), quanto l'assenza di un carattere che a quella vocazione dà un senso e una ragion d'essere: Jean non supererà mai gli esami per la Scuola militare navale, non avrà mai una nave mercantile sotto il suo comando... Alla fine, morirà come è vissuto, un sognatore inadatto alla vita e che sempre aveva rimandato a un domani il momento delle scelte. Morirà in mare, ma non per colpa del mare, vittima delle febbri contratte in un porto cinese e, ultimo sfregio a quel corpo ormai consunto, allorché cucito nel sacco di tela d'ordinanza verrà gettato fuoribordo e «nonostante il peso di ferro legato ai piedi, un'onda schiumosa lo rilanciò contro la nave, con tanta forza da spezzargli le ossa...».
Il niente, ovvero la fine di tutto, è il tema che colora la trilogia marina di Loti, soltanto annunciato in Mon frère Yves, quando ancora si lotta per vivere, letto come un appuntamento con il destino in Pêcheur d'Islande, il mare come unica, vera tomba, sposa funebre del marinaio, osservato con il disincanto proprio di chi è consapevole che ogni reliquia del nostro passato non è destinata a sopravviverci, è un inganno che facciamo a noi stessi ed è un inganno di cui non sappiamo fare a meno: «È una delle grandi illusioni della vita, l'affezionarsi alle cose quasi quanto agli esseri, i quali, a dire il vero, durano meno delle cose. L'attaccamento a dei luoghi e a degli oggetti, che deriva dallo sgomento di finire, è la forma più puerile dei culti umani, a meno che non ne sia una forma incredula, amara e disillusa alla quale si giunge dopo aver scandagliato il vuoto oscuro in cui vacilla tutto il resto...». L'altra illusione, resta la fede nell'aldilà, non a caso concessa da Loti alla madre di Yves, che continuerà a votare al figlio scomparso lo stesso amore cieco che gli aveva riservato in vita, non negandogli mai nulla, ma, così facendo, rendendolo impreparato alla vita stessa.
Uomo camaleonte, ufficiale di marina, viaggiatore, diplomatico, autore prolifico, narciso dalla memoria prodigiosa e portato con facilità alle lingue, disegnatore abilissimo, nel tempo il personaggio di Pierre Loti (1850-1923) ha preso il posto dello scrittore dallo stesso nome: resta un classico, e tolti due o tre titoli, su più di quaranta, fa parte di quei classici che ancora si citano, ma poco si leggono. La modernità ha il potere di invecchiare ciò che al tempo del suo apparire suonava come nuovo e quando Loti entrò in scena, nella seconda metà dell'Ottocento, incarnò come pochi altri la scoperta dell'esotico e del diverso, il viaggio per piacere e passione e non per dovere e missione, l'idea di uno stile inimitabile in grado di contrastare una società di massa che sempre più premeva per entrare in scena, ovvero era già entrata, ma ci si ostinava ancora a fingere di non vederla. Ciò che fu tra le ragioni del suo successo, il travestimento e la teatralità, i languori e gli eccessi, l'unicità del vivere e del vestire, ma anche dello scrivere, è ciò che più o meno un secolo dopo lo rende anacronistico e sospetto: ormai non ci stupiamo più di nulla, ci illudiamo di aver visto tutto, di saper tutto, non essendoci più miti in cui credere pensiamo che smitizzare sia il solo metro del saper stare al mondo. È un peccato perché leggere Loti consente, a chi abbia ancora voglia di lasciarsi andare, spazi per sorprendersi, motivi per riflettere. Per esempio, una capacità di scrittura per nulla ottocentesca, ma anzi perfettamente in grado di stare al passo cent'anni dopo; per esempio, una sensibilità d'artista ben più complessa e profonda di quanto la maschera orientalista così sfrontatamente esibita lasciasse immaginare.
Nato in una casa di donne, la madre, la sorella maggiore di lui di diciannove anni e dunque come una seconda madre, una nonna, una prozia, due zie, il mondo di Pierre Loti, pseudonimo di Louis-Marie-Julien Viaud, fu da subito un mondo senza uomini, se non per la figura resa mitica dall'assenza, dall'attesa e poi dalla scomparsa precoce a ventisette anni, di Gustave, il fratello ufficiale medico di marina che morirà di anemia tropicale nel Golfo del Bengala, il corpo «seppellito nell'immensità del mare»... È anche per questo che, marinaio a sua volta, Loti farà parte di quelli nati «sotto il segno dell'addio»: ogni ora che suona sarà sempre quella dell'imbarco, ogni Paese in cui approda sarà sempre quello da cui dovrà salpare, ogni amore, ogni affetto si trasformeranno nella cenere del successivo abbandono. Sempre Loti fuggirà per ritrovarsi, si ritroverà per meglio lasciarsi. L'unico ritratto di sé che lo accontenterà è quello che nel 1896 gli fa Lucien Lévy-Dhurmer. Si intitola Fantôme d'Orient ou Pierre Loti devant Istanbul, e per l'appunto come un fantasma Loti si vede, evanescente eppure riconoscibile, dietro di lui i contorni sfumati di una capitale misteriosa, una falce di luna, la silhouette di una moschea, il mare punteggiato di luci...
Ammesso alla scuola navale a diciassette anni, il suo primo imbarco è a diciotto, l'ultimo, da capitano di vascello, a sessanta: in mezzo ci sono quarantadue anni di servizio, di cui venti passati navigando, la Cina e l'India, il Giappone e la Cambogia, le coste del Medio Oriente e il Mar Nero. Anche il nome di scrittore gli viene da un viaggio: è a Tahiti che i dignitari della regina Pomarè IV lo soprannominano Loti, il nome di un fiore. Tutto nei suoi libri come nella sua vita rimanda sempre a un'insoddisfazione e ad un'evasione, un voler essere altrove e un voler essere un altro. Era stato così fin da bambino: «Avevo paura di crescere» scriverà un giorno, e fin dall'infanzia gli era sembrato di poter intuire il suo futuro, come se l'avesse già vissuto, come se tutto non fosse altro che un eterno presente. Nelle disposizioni testamentarie che ne accompagneranno la morte, questo tema di una giovinezza che non passa, che non deve passare, è il perno intorno a cui ruota la scelta di cosa conservare ovvero «non profanare» e cosa è invece semplice decoro, orpello, maschera e caricatura. Di quella scelta faceva parte il suo «museo infantile»: giocattoli, gusci di conchiglia, farfalle, pietre e nidi d'uccelli, fiori secchi e ritagli di giornale, libri illustrati di viaggi e di Paesi lontani, fotografie. Conservarli voleva dire ricordarlo, tenerlo in vita, l'illusione di fermare il tempo, tornare indietro nel tempo, spogliarsi di ciò che si è per essere qualcosa d'altro, annullarsi e così sopravvivere. Il vissuto aveva così una sorta di già vissuto, il passato tornava nel presente, il futuro non era una sorpresa, ma una conferma.
Nel 1907, in Egitto, una passeggiata al Museo del Cairo lo aveva
portato all'ultima sala: «C'era una mummia in vetrina e quella mummia ero io! I due me stessi faccia a faccia, il mio io vivo e il mio io morto. L'io in piedi e l'io sdraiato. Sdoppiamento, confronto. Mi ero ritrovato...».
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