Per chi ha più di cinquant’anni il nome di Milovan Gilas - o Djilas - (1911-95) è associato a un comunismo anticonformista: anzitutto fu lui ad additare a Tito la «via jugoslava al comunismo» con gli operai coinvolti nella gestione e nei profitti aziendali (la famosa autogestione operaia), e a spingere il Partito comunista jugoslavo a prendere le distanze da quello sovietico. In secondo luogo, Gilas divenne noto come il grande dissidente di quello stesso partito, la voce indipendente della Jugoslavia: ai tre anni passati nelle galere del Regno di Jugoslavia negli anni Trenta, si aggiunsero nove anni nelle prigioni di Tito, condannato per le sue idee e la sua critica ai burocrati dei paesi comunisti, da lui indicati come una nuova classe di privilegiati in un sistema lontanissimo dall’egalitarismo che propugnava.
Prima ancora, però, Gilas era stato un intellettuale e un membro autorevole di Partito comunista, secondo forse al solo Tito. Membro del Comitato centrale, poi del Politbjuro, capo della sezione montenegrina, ministro della Guerra e poi viceministro della nuova Jugoslavia, direttore di Borba, il giornale che ne era l’organo ufficiale, fino all’espulsione dal partito nel 1954 per la sua visione eretica.
Ora, quella sua visione eretica del comunismo venne formandosi nella seconda guerra mondiale, quando il Partito comunista jugoslavo uscì dalla semilegalità e si mise a capo della guerriglia partigiana. Sono gli anni che vanno dal 1941 al 1945 e che costituiscono l’oggetto dei suoi ricordi di guerra, ora tradotti per la prima volta in italiano: La guerra rivoluzionaria jugoslava (Libreria Editrice Goriziana, pagg. 536, euro 35: prefazione Sergio Romano). Un libro straordinario, a un tempo cronaca dall’interno degli avvenimenti bellici in Jugoslavia e riflessione di un comunista su quella guerra, sulla rivoluzione, sulla dipendenza da Mosca, sui rapporti tra leadership e popolo, sugli Italiani in guerra («Che razza di impero miserabile! Fanno elmetti che tutte le pallottole possono sforacchiare!») e la vicenda di Trieste, sulla partecipazione di Togliatti alle purghe staliniane («Spesso mi sono chiesto, e lo faccio anche oggi: che cosa provava Togliatti, che cosa passava per la sua fine mente machiavellica ai tempi delle purghe di Stalin? Di sicuro tutto gli era chiaro. E a tutto aveva preso parte. Si convinse, se non era già convinto, che si trattava di quella marxista-hegeliana “necessità storica” nella sua più pura e più totale incarnazione e realizzazione»), sugli espropri e i massacri post-bellici (Gilas riconosce onestamente anche quelli compiuti dai comunisti serbi), fino alla delusione nei confronti del regime jugoslavo.
L’aspetto straordinario non consiste tuttavia nelle novità raccontate da Gilas, quanto nella sua onestà intellettuale, nell’analisi spietata dei miti e degli schemi ideologici comunisti. La distanza dagli avvenimenti e dall’ideologia gli permette infatti di vedere quello che i comunisti italiani ancora stentano a riconoscere, e cioè che la guerra contro gli invasori era contemporaneamente «una guerra che nasceva dalla nostra ideologia rivoluzionaria» e si trasformò ben presto in una guerra civile: «La guerra che noi comunisti avevamo concepito e iniziato non era e non poteva essere solo nazionale: i comunisti non sono attratti da nulla, neppure dalla libertà nazionale, se in essa non ci fosse per loro la prospettiva di una specifica comunità ideologica nazionale».
Gilas segue lo sviluppo di quella guerra nel calderone balcanico dove combattono italiani, tedeschi, inglesi, sovietici, comunisti jugoslavi, contadini nazionalisti, cittadini democratici e patriottici, cetnici (i nazionalisti serbi filomonarchici), albanesi, clan patriarcali montenegrini, ustascia (i nazionalisti croati filofascisti e antiserbi), turchi (gli slavi meridionali di fede musulmana). Segue la radicalizzazione della rivoluzione man mano che penetra in profondità negli strati sociali e del conflitto che degenera in una «guerra senza pietà, senza regole» e che conduce alla morte del 10% della popolazione.
Contemporaneamente, però, prende le distanze dalla lettura ideologica di quella guerra rivoluzionaria: «Le rivoluzioni - afferma - devono esistere, ogni volta che le forze politiche dei popoli e delle comunità non sono in grado di trovare forme attraverso le quali sviluppare soluzioni ragionevoli e giuste. La rivoluzione si giustifica come situazione di vita. L’idealizzazione delle rivoluzioni è però una copertura per l’egoismo e la sete di potere di nuovi padroni rivoluzionari». Demitizza il ruolo del popolo capace di scambiare la libertà e la patria con la salvezza della proprietà e della famiglia («Questo non si conciliava affatto con la mia idea dogmatica sul popolo, sul contadino e l’operaio pronti a sacrificarsi per la “propria” causa. Durante tutta la guerra, fino alla mia caduta, non mi liberai mai da questa idealizzazione, anche se già allora intuivo che il popolo non si sacrifica per nessun ideale»), il mito della sua spontaneità, della fratellanza comunista, della «Madre Russia» e del ruolo della dirigenza esaltato dalla storiografia ufficiale successiva.
L’onestà di Gilas lo porta a riconoscere non solo i pregiudizi di cui era vittima, ma anche la loro origine ideologica. «Ero ingiusto, ma ero un funzionario comunista», scrive amaramente.
Leggetelo: è il libro di un comunista onesto.
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