Alla fine è sempre la storia, il tempo a presentare il conto. E il tempo della vita di Fidel Castro sta per concludersi: vecchio e malato, il Líder Maximo ha dovuto rinunciare al potere a favore del fratello Raul, mentre tutto il mondo guarda alla sua figura e al legato lasciato in eredità al suo Paese. Triste legato che, dopo cinquant'anni di revolución marxista, vede la popolazione di Cuba stremata da un'economia fallimentare e vessata da un regime poliziesco con elezioni a lista unica che ha impedito ogni forma di pluralismo politico, incarcerato o costretto all'esilio numerosi oppositori e «diversi» (politici, uomini di fede, omosessuali) e, soprattutto, combattuto con forza il gruppo degli intellettuali dissidenti che hanno cercato, pagando spesso con la propria persona, di opporsi al controllo dell'informazione e della cultura imposto dall'apparato governativo. La documentazione fornita dalle stesse vittime sulla vita del gulag cubano e in genere sulle condizioni oppressive della politica è impressionante e continua ad arricchirsi di nuove prove e testimonianze. Una denuncia circostanziata arriva dal libro di Armando Valladares Contro ogni speranza (trad. di Roberto Sonaglia, Spirali, 25, pag. 398) che, come informa il sottotitolo, narra 22 anni di vita trascorsi nel fondo delle carceri di Fidel Castro.
Il libro è scandito da brevi capitoli dai titoli eloquenti («Detenzione», «La visita», «Un carcere modello», «Suicidi ed escrementi», «Perquisizioni, percosse e saccheggio» ecc.) che raccontano la lunga odissea vissuta dall'autore, o descrivono i luoghi infami della detenzione («Isla de Pinos», «La pietraia», «Di nuovo a La Cabaña», «Il carcere di Boniato»), oppure rievocano persone ed episodi del lungo periodo sofferto; non mancano neppure immagini dei personaggi presenti nella storia, perché, scrive Valladares, «si sappia che sono persone realmente esistite o tuttora esistenti, gente con un volto». Molti, dopo lunghi anni di sofferenze, poterono fuggire e rifugiarsi in esilio in America; come Celestino Méndez, compagno di lavori forzati, con cui lo scrittore organizza la seconda fuga dal carcere, o Jorge Portuondo, che subì una terribile sperimentazione biologa, ma alla fine si salvò e ora vive a Miami. Altri, invece, non ce la fecero a uscire dall'inferno in cui erano precipitati: non ci riuscì Alfredo Carrión, studente di legge e compagno di cella dello scrittore, che di lui lascia questo cruento ricordo: «Lo fecero fuori sparandogli alle spalle mentre, ferito a una gamba, implorava che non lo ammazzassero»; e neppure scampò alla violenza Eduardo Capote, rivoluzionario che lottò contro Batista: «Le sue mani furono mutilate a colpi di machete nella prigione di La Cabaña».
La scrittura di Contro ogni speranza è rapida, essenziale, più vicina alla cronaca che al racconto poiché Valladares è cosciente che quando i fatti saranno conosciuti nei particolari «l'umanità proverà il medesimo disgusto che ha provato di fronte ai crimini di Stalin». Le memorie di questa terribile esperienza iniziano a Cuba negli anni Sessanta con l'arresto dell'autore, funzionario del governo rivoluzionario presso la Cassa di Risparmio Postale ma dichiaratamente antimarxista, e si chiudono con la sua liberazione nel 1982 e l'esilio in Francia poi in Spagna, dove Valladares crea il Comitato Pro-Diritti Umani a Cuba, e in seguito, insieme a Vladimir Bukovskij, a Parigi, in cui fonda quello della Resistenza Internazionale, che riunisce oppositori di ogni dittatura, di sinistra e di destra. Dopo l'arresto, il trasferimento in carcere e il brutale interrogatorio, l'ex funzionario cubano precipita in una bolgia dantesca che lo vede passare di carcere in carcere, sottoposto a una lunga serie di soprusi e umiliazioni inflitte al corpo come anche all'anima. «Ci sono a Cuba oltre duecento penitenziari - scrive Valladares in apertura del libro - tra prigioni di massima sicurezza, campi di concentramento, o le cosiddette fattorie e fronti aperti, dove i prigionieri sono costretti ai lavori forzati». In una di queste prigioni, quella dell'antica fortezza spagnola chiamata La Cabaña, possiamo assistere (sì, perché Valladares racconta dal vivo, riuscendo quasi a farci sentire il grido del comandante: «Plotone, caricare... Fuoco!») alla fucilazione del medico cattolico Julio Antonio, che prima di essere condotto al palo stringe la mano a tutti gli uomini del plotone dicendo loro che li perdona.
Episodi di vita comune dei condannati - in cui si mescolano amici e delatori, momenti di esaltazione legati a tentavi di fuga, scioperi della fame, perquisizioni, violenze e percosse brutali, urla e ululati di sirene - accompagnano il lettore, che non sa se apprezzare di più la concisione del racconto o la forza dirompente dei fatti, conquistato dal protagonismo doloroso del corpo che, insieme alla sofferenza della mente, esibisce tutto il suo strazio e tormento. Come mostra questo breve esempio legato all'ora del bagno, durante la quale le sentinelle aprivano e toglievano l'acqua a capriccio: «Quando immaginavamo che fossimo tutti insaponati, chiudevano i rubinetti. E lì cominciava una cagnara infernale... Il sapone ci si seccava addosso e sentivamo la pelle tirare; i capelli erano una specie di impiastro. Le urla isteriche per avere ancora acqua si trasformavano in un'ulteriore tortura. E quell'inferno minava l'equilibrio delle nostre menti».
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